Ambiente contro Paesaggio
Anche il Fai cade in trappola
(di Tomaso Montanari, dal FQ, con citazioni di alcuni passaggi dell’ultimo libro di M. Pallante, “l’imbroglio dello sviluppo sostenibile”)
Se un colosso dell’energia dice esattamente le stesse cose che dicono le associazioni ambientaliste, allora tanto vale sciogliere queste ultime. Siamo in una società tanto virtuosa e perfetta, che un colosso dell’energia dice esattamente le stesse cose che dicono le associazioni […]

– Siamo in una società tanto virtuosa e perfetta, che un colosso dell’energia dice esattamente le stesse cose che dicono le associazioni ambientaliste: siamo dunque pronti a sciogliere queste ultime, perché evidentemente non ne abbiamo più bisogno. “E se per salvare il paesaggio un po’ lo cambiassimo?”. Questa pubblicità della Edison è comparsa sul Corriere della sera di venerdì scorso, e reclamizza “parchi eolici e fotovoltaici sempre più avanzati e integrati nell’ambiente”. Nello stesso giorno, su la Repubblica, veniva celebrata la “svolta ambientalista” di Fai, Wwf e Legambiente: “Sì a eolico e fotovoltaico, ecco le nostre condizioni”. A rincarare la dose, sullo stesso quotidiano, un’intervista al presidente del Fai attaccava ad alzo zero le soprintendenze, onorando così il titolo ultra-ideologico (“Dire sempre no è solo ideologia. Il paesaggio non è intoccabile”). E noi che pensavamo che fosse stato “toccato” fin troppo, anzi massacrato!
Se si legge il documento delle tre associazioni, le posizioni sono meno gridate e strumentali di quanto gridino i sullodati giornaloni. Alcune proposte sono sacrosante (soprattutto sul rilancio dei Piani paesaggistici regionali, unici strumenti idonei a decidere dove installare pale eoliche e pannelli fotovoltaici, o sulla necessità di una vera formazione al governo del paesaggio), altre invece inutilmente propagandistiche e sostanzialmente pericolose: per esempio quella che propone pannelli fotovoltaici anche nei centri storici (non ce n’è alcun bisogno: è solo ideologia industrialista), e quelle che sottovalutano i rischi della perdita di terreno agricolo in favore del fotovoltaico. A chi scrive continua a sembrare assai più onesta e condivisibile la posizione di Italia Nostra, che si è rifiutata di partecipare alla “svolta” delle consorelle, e che si dice “per la pianificazione e comunque favorevole al fotovoltaico da installare su: i tetti dei capannoni industriali (circa 700.000 secondo il Wwf); le aree degradate da bonificare, corrispondenti a circa 9.000 kmq; i tetti degli edifici pubblici e privati al di fuori dei centri storici, circa 760 kmq; cui vanno aggiunte tutte le aree di manovra, parcheggio e stoccaggio”.
Ma, al di là delle divergenze sulle (pur rilevantissime) collocazioni di pale e pannelli, quel che sembra mancare drammaticamente a tutte le associazioni è la capacità di mettere il discorso su un altro piano, più radicale e risolutivo. Se anche gli ambientalisti sposano la favola delle rinnovabili come panacea (e cioè, appunto, l’attuale vulgata industrialista), e non provano a spostare assai più in alto l’asticella, abbiamo davvero poche speranze di farcela.
Siamo – si perdoni la similitudine – come un tossico che pur di continuare a bucarsi (cioè a non diminuire il consumo, rinunciando al dogma della crescita) vende, perdendoli per sempre, i gioielli di famiglia (il paesaggio italiano, bene non rinnovabile se devastato oltre un certo limite – limite, come è noto, largamente oltrepassato in molte sue parti). Ora, davvero è utile che il pensiero in teoria più avanzato si sgoli a giustificare, anzi ad esaltare, la svendita di quei gioielli? O non avremmo bisogno che ci dicesse di cambiare radicalmente vita, cioè di smettere di “farci” di crescita? Nel suo ultimo libro (L’imbroglio dello sviluppo sostenibile, Lindau), Maurizio Pallante torna a ricordarci che “in realtà le fonti rinnovabili non sono pulite, perché causano direttamente o indirettamente altre forme, sebbene localizzate e meno gravi, di impatto ambientale” (attraverso alterazioni dei bacini idrici, disboscamenti, cementificazioni e impianti di stoccaggi, necessità di litio e cobalto, con conseguenze sociali e geopolitiche devastanti…), e che “l’unica possibilità di attenuare progressivamente la crisi ecologica e di evitare che raggiunga il punto di non ritorno è costituita dalla riduzione del consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, dei consumi energetici, della produzione di sostanze di scarto biodegradabili e non biodegradabili, del consumo di carne nell’alimentazione, del consumo di suolo, della biodiversità, della chimica in agricoltura, della circolazione automobilistica e dei viaggi aerei, dei tassi di natalità, dell’urbanizzazione, della pesca… Per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale occorre decrescere”.
È questo che vorrei sentir dire da chi si è assunto l’enorme responsabilità di parlare, come profeta moderno, a nome dell’ambiente. Perché se non cambiamo davvero modello economico e sociale, sarà stato del tutto vano aver distrutto anche il paesaggio italiano.
Nel maggio 2021, commentando l’improvvida novella dell’articolo 9 della Costituzione, scrivevo su questo giornale: “Ecco la strategia dell’ambientalismo industriale italiano: mettere ambiente contro paesaggio, per continuare a far girare la macchina dei soldi privati a spese del territorio pubblico. Facendosi pure santificare come paladini dell’ambiente”. Una fin troppo facile profezia.