Bio, info e talk, ovvero: quelli della neolingua

di Filippo Schillaci (*)

Sono passati vari anni ma ricordo ancora un certo manifesto che pubblicizzava, a Lucca, la stagione concertistica del Teatro del Giglio: una donna ipertatuata, vestita in stile vagamente punk e in posa marziale che brandiva un violino come un soldato che fa il presentatarm. Lo trovai di pessimo gusto, né era la prima volta che mi trovavo di fronte a simili cose, e sapevo che non sarebbe stata l’ultima. E non lo fu. Perché fino a qualche decennio fa c’era la Cultura, quella senza ulteriori attributi, la Cultura e basta, che si presentava al pubblico secondo le modalità che le erano congeniali, a volte eccessivamente paludate, è vero, a volte attorniate da un alone di mondanità di cui si sarebbe volentieri fatto a meno, ma senza mai intaccare un concetto cardine: che la Cultura è una cosa seria, e come tale va considerata.

Oggi no. Oggi la Cultura è anch’essa intesa come prodotto, e in quanto tale il suo posto si ritiene debba essere l’industria dello spettacolo. Ecco dunque il manifesto di Lucca, e tutto il resto. Ecco che anche la Cultura nelle sue forme più alte la ritroviamo acconciata secondo forme di “comunicazione” richiamanti esplicitamente un contesto da sottocultura di consumo e di massa da cui la Cultura in quanto tale, inutile dirlo, è agli antipodi. E poiché la Cultura è un prodotto fra i prodotti l’enfasi comunicativa è portata appunto sul concetto di prodotto cui fa da contraltare una visione sminuente di tutto ciò che è idea, contenuto. Promuovere la Cultura significa dunque oggi scatenarsi in un’apologia di quella superficialità consumistica dentro cui si pretende ormai di inglobare ogni cosa.

Trovo inevitabile riflettere su quella che è ormai una tendenza che negli ultimi decenni ha assunto proporzioni che non è esagerato definire storiche su scala temporale e geopolitiche su scala spaziale: la tendenza a banalizzare la Cultura presentandola secondo le modalità, ripeto, della sottocultura di massa, che non conosce creatività ma solo produzione, svuotandola con ciò di significato e rendendola in una parola inoffensiva. È quella che Hermann Hesse nel Gioco delle perle di vetro chiamava la “cultura da terza pagina”, una forma degenerata di cultura sottoposta al processo di riduzione all’osso di quella neolingua la cui grammatica Orwell esponeva in appendice al suo 1984, una lingua scheletrita, resa inadatta a esprimere nulla più che l’elementarità più bassa. Esattamente come accade oggi, e non solo nel linguaggio verbale, dove è ormai una regola l’uso di nomignoli monosillabici (bio per biografia, info per informazione o, peggio ancora, talk per conferenza), oppure la deviazione banalizzante dei significati propri (ecologia per nettezza urbana, cultura dell’accoglienza per gestione alberghiera, relazione per tratta ferroviaria), ma anche, e soprattutto, accade nella più insidiosa fra tutte le forme di comunicazione, quella visiva, quella capace più di tutte di “arrivare alle budella dello spettatore senza passare per il cervello” (frase pronunciata molti anni fa da un docente durante un master universitario in Scienze della Comunicazione); ed ecco dunque una profusione di immagini confezionate secondo i criteri della pubblicità, della televisione spazzatura, dei comics, che mira a sollecitare i livelli più inconsci e primigeni della psiche bypassando ogni capacità di razionale analisi critica.

Questa strategia globale rivolta alla cultura si inscrive a sua volta in un più generale processo di inebetimento delle masse di cui aveva ben intuito i meccanismi già negli anni ’50 Günther Anders:

Per soffocare in anticipo ogni rivolta (…) basta creare un condizionamento collettivo così potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più alla mente degli uomini. (…) Bisogna fare in modo che l’accesso al sapere diventi sempre più difficile e elitario, che l’informazione destinata al grande pubblico sia anestetizzata da qualsiasi contenuto sovversivo. Niente filosofia. Bisogna usare la persuasione e non la violenza diretta: si diffonderanno massicciamente, attraverso la televisione, divertimenti che adulano sempre l’emotività o l’istintivo. […] In generale si farà in modo di bandire la serietà dall’esistenza, di ridicolizzare tutto ciò che ha un valore elevato, di mantenere una costante apologia della leggerezza; in modo che l’euforia della pubblicità diventi lo standard della felicità umana e il modello della libertà. Il condizionamento produrrà così da sé tale integrazione, che l’unica paura che dovrà essere mantenuta sarà quella di essere esclusi dal sistema e quindi di non poter più accedere alle condizioni necessarie alla felicità.

Quanto a me, rimango membro di quella specie a quanto pare in via di estinzione che ha ancora una concezione alta della Cultura, dove alta non significa elitaria; considero al contrario l’idea di una Cultura per pochi come funzionale alla strategia che ho sopra descritto. Alta significa che la Cultura è il luogo immateriale dell’uomo destinato ad accogliere le sue domande più profonde, e come tale essa esige rispetto, serietà, riflessione. Non ammette superficialità, frivolezze, faciloneria. Le nostre domande più profonde non sono cose da ridurre a fumetto, a talk show televisivo, a forme grossolane di spettacolo.

Poi, serietà non significa seriosità; nella cultura può esserci spazio per l’ironia, il sorriso. Charlie Chaplin ci ha insegnato molto al riguardo e chi mi conosce sa bene che non sono mai serioso nei miei interventi pubblici. Ma la banalizzazione, lo svuotamento o la storpiatura dei significati è un’altra cosa. E questo non è mai ammissibile. Invece è ciò che accade ormai sistematicamente, e di questo è necessario che tutti noi, noi che abbiamo per la Cultura (che insisto a scrivere con la C maiuscola), sia essa arte, filosofia o scienza, quel rispetto che merita, ci rendiamo tenacemente consapevoli.

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* Filippo Schillaci si occupa di fotografia dal 1982 e di linguaggio cinematografico dal 1994. In campo cinematografico si è occupato in particolare dell’opera di Andrej Tarkovskij, Godfrey Reggio e Franco Piavoli. Il suo metodo di analisi si propone di risalire alla poetica dell’autore attraverso la comprensione della forma filmica.

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