CIBO ED ENERGIA A CHILOMETRI ZERO


di Dante Schiavon



Il nuovo Decreto Energia del 15 maggio 2022 del Governo Draghi elenca i terreni che possono ospitare impianti fotovoltaici. In tale elenco figurano i “terreni agricoli e aree classificate agricole, racchiuse in un perimetro i cui punti distano non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale” (capannoni, centri commerciali, poli logistici, ecc.). Tale modalità per la soluzione del problema energetico fa sorgere un conflitto tra l’obiettivo della “sovranità energetica” e le “condizioni naturali” che garantiscono la fornitura dei servizi ecosistemici del suolo nel tempo dei cambiamenti climatici: la fornitura di cibo, l’assorbimento delle copiose acque meteoriche, delle polveri sottili e della CO2. Dobbiamo evitare la guerra tra “energie rinnovabili” e una “risorsa non rinnovabile” come la “terra”, altrimenti il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) diventa l’ennesima declinazione del PNIPIL (Piano Nazionale di Incremento del Pil): una scorciatoia tecnologica irrazionale, conseguenza anche del ritardo con cui si affronta l’emergenza climatica e inquinata dall’ansia da PIL e dall’ ignoranza delle leggi naturali. Per applicare correttamente il concetto di resilienza che, per definizione, altro non è che “la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”, ci viene in aiuto la direttiva comunitaria nr. 2018/2001/UE sulla promozione dell’uso dell’energia da “fonti rinnovabili” che invita gli Stati a privilegiare “l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e aree non utilizzabili per altri scopi”. Nella scelta operata dal governo per l’individuazione delle aree adatte alla pannellizzazione fotovoltaica appare evidente la rinuncia a fare quel salto di consapevolezza che la situazione richiederebbe. Le risorse del PNRR vanno utilizzate per incrementare gli spazi della natura non per ridurli con infrastrutture che riducono le prestazioni ecosistemiche del suolo: è questa la resilienza. In Italia, ma soprattutto in Veneto, si può contribuire a raggiungere la “sovranità alimentare” e la “sovranità energetica” rivoluzionando il nostro pensiero che per decenni ha ridotto il suolo a “merce”. Basta pensare che senza quella pellicola di 40 centimetri chiamata suolo che ricopre la terra non sarebbero possibili le funzioni e le attività “naturali” e “antropiche”. Se vogliamo aumentare il peso delle rinnovabili nel nostro paniere energetico, senza alterare le prestazioni ecosistemiche essenziali del suolo nel contrasto ai cambiamenti climatici e ai loro effetti, si deve dare una “funzione ecologica” alle “superfici artificiali” che abbiamo già sottratto alla natura. Poiché “il carbonio accumulato sotto forma organica si trova soprattutto negli strati più superficiali (10-30 cm.) e rappresenta una quantità strappata alla possibile presenza nell’atmosfera” (Paolo Pileri), prima di perdere per sempre una preziosa risorsa non rinnovabile, bisogna utilizzare gli spazi della natura che sono già stati compromessi artificialmente dall’uomo e, solo dopo, si potrà prendere in considerazione eventuale consumo di suolo agricolo per produrre energia. In Veneto ci sono (Fonte Assindustria Veneto Centro 2019) 92000 capannoni, di cui 11000 abbandonati: un capannone ogni 54 abitanti. In Veneto se si utilizzassero anche parte dei 413 chilometri quadrati occupati da ben 5679 zone industriali presenti nei 541 comuni veneti e si utilizzassero i tetti disponibili nelle zone residenziali si raggiungerebbero tre obiettivi: fermare l’emorragia di suolo agricolo in Veneto che, secondo la Coldiretti di Rovigo, in 25 anni ha perduto il 28% di terra coltivabile, contribuire al raggiungimento dei GW necessari al superamento della dipendenza da fonti fossili e far crescere “un’agricoltura contadina”, fatta di tante piccole realtà locali che adottano un modello di agricoltura basato sulla “diversificazione” e “rotazione” delle colture, sulla “coesistenza” con fossi, siepi, arbusti, altre piante , alberi e boschi contigui, allo scopo di aumentare la fertilità dei terreni agricoli senza utilizzo di fitofarmaci di sintesi e diminuire il fabbisogno idrico, magari anche impiegando varietà colturali resistenti alla siccità (penso alla canapa). Si deve “rivoluzionare” la modalità di “approvvigionamento del cibo”, a partire dal ridimensionamento delle monocolture intensive e degli allevamenti intensivi, per dare vita ad una forma di agricoltura del territorio su piccola scala, tramite tante piccole realtà locali che garantiscano il soddisfacimento della sovranità alimentare a chilometri zero.

Si deve, altresì, “rivoluzionare” la modalità di “approvvigionamento di energia” dal sole, rendendo funzionali a tale scopo i tetti degli edifici industriali , commerciali e residenziali e favorire la costituzione fra associazioni di quartiere, aziende e singole famiglie di “comunità energetiche” che condividono la produzione di energia dal sole e la condividono all’interno dello stesso territorio, riducendo la dipendenza dalle grandi compagnie e dalle fluttuazioni del mercato internazionale dell’energia. Con le comunità energetiche quell’energia ceduta in rete potrebbe essere messa a disposizione della comunità circostante, rendendo quei tetti una risorsa per tutta la cittadinanza e salvando nuovo consumo di suolo per produrre energia rinnovabile.

Aumentare gli spazi per l’auto produzione alimentare ed energetica dei territori è anche una forma di lotta contro gli effetti perversi della globalizzazione gestita da grandi aziende multinazionali, dai colossi dell’e-commerce, dall’ imperialismo economico e commerciale della Cina e delle grandi potenze, che stanno, tra l’altro, scippando le risorse naturali dei paesi piu’ poveri.
Schiavon Dante

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