Codogno, coronavirus e cambiamenti climatici
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di Jacopo Rothenaisler
Codogno metafora del Pianeta.
Il villaggio globale in cui viviamo si fa ogni giorno più ristretto, e così può essere che tutto stia al centro, come oggi sembra capitare al comune di Codogno. Nel comune del Lodigiano in questi giorni si incrociano, metafora del Pianeta, i due maggiori problemi che l’umanità deve affrontare. Il primo, contingente e di drammatica attualità, è l’epidemia mondiale di coronavirus che ha proprio in Codogno il centro italiano più colpito. Il secondo, di lungo respiro ma di altrettanto drammatico e rapido progredire, riguarda i cambiamenti climatici. Il più grande fiume italiano, il fiume Po, lambisce Codogno: in questi giorni i livelli idrografici del fiume sono gli stessi della passata estate, ma siamo a fine febbraio.
Venerdì 28 febbraio il livello idrometrico al ponte della Becca, in provincia di Pavia, alla confluenza fra Ticino e Po è stato di meno 2,53 metri, lo stesso di metà agosto scorso. Il Po e i laghi del Nord sono a secco. Nelle regioni del Centro-Sud la situazione è ancora più difficile con l’allarme siccità in Puglia, Umbria, Basso Molise, Irpinia, Lucania, Basilicata, dove mancano all’appello circa 2/3 delle risorse idriche di solito disponibili. Situazione drammatica anche in Sicilia dove la riduzione delle piogge è di circa il 75% rispetto a un anno fa. Le piogge sono le grandi assenti e il rischio è la desertificazione.
Risposte molto diverse.
In una lettera da Anchorage, Alaska, il dottor Jon R. Nickels, supervisore del Servizio per la Tutela dei Pesci, si domanda «perché la preoccupazione che ci accomuna su scala globale per il coronavirus e la rapida risposta al problema messa in campo in tanti Paesi contrasta con la totale mancanza di responsabilità rispetto ai cambiamenti climatici in atto»? Il contrasto è sconcertante. Da una parte un’epidemia, per fortuna di bassissima mortalità, eppure ospedali costruiti in pochi giorni, conferenze stampa dei premier di tutto il mondo, per rassicurare la popolazione, scienziati febbrilmente al lavoro per produrre un vaccino. Attività ferme. E ovviamente, milioni di servizi sui media.
Dall’altra parte i cambiamenti climatici prodotti dall’uomo. Johan Rockström, direttore dell’Istituto di ricerca sull’impatto climatico di Potsdam, intervenuto a nome della comunità scientifica alla plenaria dei delegati della COP 25 a Madrid lo scorso dicembre, si è appellato ai Governi di tutto il mondo presenti alla conferenza con queste parole: “la scienza negli ultimi 20 anni ha sottovalutato il ritmo del cambiamento e i rischi che stiamo affrontando. Il 2019 non è solo un altro anno oscuro in termini di riscaldamento globale. Gli ultimi 5 anni sono i più caldi mai registrati e gli impatti climatici – siccità, inondazioni, incendi e ondate di calore che colpiscono le società di tutto il mondo – ne sono l’effetto ogni anno più devastante”.
L’aumento delle temperature, anche volendo ignorare gli impatti ambientali, è inoltre al primo posto dei principali rischi per l’economia globale come emerso dal Global Risk Report 2020 stilato annualmente dal World Economic Forum. E allora perché questa sproporzione tra quello che si fa contro il virus e quanto si dovrebbe fare contro il surriscaldamento globale?
Perché?
Perché la notizia di un piccolo focolaio epidemico a Codogno fa il giro del mondo in tempo reale, e la notizia della siccità – da sempre percepita dall’Uomo come il maggior rischio per la sua sopravvivenza e, per esempio, causa principale dello scatenarsi della sanguinosa guerra in Siria – che sta colpendo 2/3 del territorio nazionale non raggiunge e preoccupa quasi nessuno italiano?
Perché il pericolo costituito dai cambiamenti climatici che induce a parlare di sesta estinzione di massa delle specie viventi mobilita solo una piccola parte della popolazione, una piccola parte dei media, peraltro con grande frustrazione perché spesso chi si occupa di clima viene percepito come un profeta di sventura? Perché la gente, si interroga Elisabetta Ambrosi, corre a comprare mascherine, prega e piange per il coronavirus e non per il cambiamento climatico?
«Per dare una risposta bisogna analizzare le dinamiche con cui avviene la costruzione sociale del rischio» spiega Giovanni Carrosio, sociologo dell’Ambiente presso l’università di Trieste. «Per comunicare efficacemente non basta utilizzare dati oggettivi o un approccio razionale, perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto e alle credenze delle persone». Questo porta a «sottovalutare o sovrastimare un evento e contemporaneamente innesca reazioni che non sono proporzionate al fenomeno». L’esempio classico è la nostra sensazione nel viaggiare in auto o in aereo. «Razionalmente tutti sappiamo che volare è più sicuro che guidare, ma tutti abbiamo più paura di prendere il volo che di sederci al volante».
Per Marco Bagliani, docente di Cambiamento climatico, strumenti e politiche all’università di Torino, «il parallelismo tra coronavirus e crisi climatica chiama in causa la psicologia dei disastri». Particolare importanza assumono tempi, spazi e ricadute sociali. «L’epidemia del coronavirus si sviluppa su una scala temporale breve e rispetta i tempi tipici dell’attenzione, mentre il cambiamento climatico varia su una scala temporale più lunga.
Parlando di spazi, l’epidemia ha una sua collocazione: le città, gli ospedali, una nave in quarantena, mentre la crisi del nostro pianeta non si sviluppa per forza sotto i nostri occhi». Infine le ricadute sulla vita delle persone: «Mettersi in gioco per fermare il virus prevede un sacrificio a breve termine (limitare i viaggi, indossare le mascherine), provare a contrastare il cambiamento climatico invece significa rivedere gli stili di vita per sempre».
Per dirla in parole semplici i cambiamenti climatici continuano ad essere percepiti come un rischio di cui non si comprende bene l’entità, che è distante nel tempo, che non ci riguarda individualmente mentre comporterebbe modifiche al nostro stile di vita.
50 anni sprecati.
Era il 1974 quando a Salisburgo, in una delle non poche riunioni indette dopo la pubblicazione da parte del Club di Roma dei “Limiti dello sviluppo” cui presero parte eminenti scienziati e uomini politici di governo, il Primo Ministro svedese Olaf Palme ebbe a sottolineare come “nessun Governo democratico sarebbe riuscito a rimanere in carica se avesse applicato (come egli stesso riteneva necessario) politiche coerenti ai risultati dello studio”.
Il Rapporto sui limiti dello sviluppo (dal libro The Limits to Growth), commissionato al MIT dal Club di Roma, pubblicato nel 1972, predice le conseguenze della continua crescita della popolazione sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana.
Quasi 50 anni dopo quello studio e le profetiche parole di Olaf Palme nulla e cambiato nella volontà dei Governi, nonostante gli innumerevoli accordi internazionali sottoscritti, a por mano ai cambiamenti oggi divenuti sempre più radicali necessari al contenimento dell’innalzamento della temperatura media del Pianeta entro 1,5°C.
I politici non fanno e non faranno nulla: vedono questo eventuale (sic) pericolo dilazionato oltre il termine della loro funzione pubblica e non si sono mai preoccupati di quello che potrebbe succedere oltre la fine del loro mandato.
Una partita sempre più difficile
Non siamo soli, tutt’altro, a lottare per evitare il collasso e assicurare un futuro il più armonioso possibile alle generazioni future: siamo milioni e milioni.
Ma è difficile giocare una partita quando, sempre citando Serge Latouche, la prospettiva di un suicidio collettivo sembra ai più meno insopportabile che una messa in questione delle nostre pratiche di vita e un cambiamento di modello.
Non resta che l’impegno quotidiano e la speranza.
Alexander Langer 30 anni fa ammoniva che “distruggere il presente per salvare il futuro non può essere una proposta né convincente né vincente”. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e, forse, con una situazione radicalmente cambiata in peggio, è necessario andare oltre per non perire.
Bibliografia:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/02/01/coronavirus-cambiamento-climatico/5691725/
https://www.corriere.it/pianeta2020/20_febbraio_25/perche-risposta-coronavirus-puo-insegnarci-lottare-il-clima-c638fcee-57d6-11ea-a2d7-f1bec9902bd3.shtml
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-grande-siccit-allarme-clima
https://lanuovaferrara.gelocal.it/ferrara/cronaca/2020/02/28/news/il-po-e-in-secca-cosi-il-clima-impazzito-sta-mettendo-in-crisi-il-grande-fiume-1.38528995
Il coronavirus terrorizza, il clima no: come nasce la percezione del rischio – La Stampa
Photo by Markus Spiske on Unsplash
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Due annotazioni di carattere tipografico:
al rigo 15 Lucania e Basilicata sono due modi di chiamare la medesima regione,
al rigo 80 “e” andrebbe con l’accento.