Dalla pandemia alla recessione (e dalla ripresa economica a una nuova pandemia?)
di Maurizio Pallante
Le misure restrittive poste alla libertà di movimento delle persone e alle attività produttive hanno fatto diminuire il numero dei contagi e dei decessi, ma hanno innescato la più grave crisi economica della storia del modo di produzione industriale perché, per tutto il periodo in cui sono state costrette a restare a casa, le persone hanno consumato meno di prima e non hanno potuto lavorare, a eccezione di chi poteva svolgere la sua attività in telelavoro e dei lavoratori impiegati nei settori produttivi classificati indispensabili dai governi. Di conseguenza sono diminuite sia la produzione, sia la domanda di merci. Molti lavoratori dipendenti, artigiani e commercianti sono rimasti privi di reddito, per cui hanno avuto bisogno di sussidi statali per comprare i generi di prima necessità, pagare gli affitti, le bollette delle utenze e le rate dei mutui.
L’attuale crisi economica non è una delle crisi di sovrapproduzione che hanno scandito la storia del modo di produzione industriale. L’economia mondiale non è stata fermata da un eccesso di offerta sulla domanda che abbia costretto a ridurre la produzione facendo aumentare la disoccupazione e, di conseguenza, abbia comportato una ulteriore diminuzione della domanda avviando una spirale recessiva che si avvita su sé stessa. L’economia è stata fermata da un virus che si è diffuso rapidamente nella specie umana e dalla decisione politica della maggior parte dei Paesi di confinare la popolazione in casa per limitare i contagi. La scelta di dare la prevalenza alla tutela della salute sul profitto ha inevitabilmente danneggiato l’economia, ma, per la prima volta nella storia del modo di produzione industriale, la scelta opposta, di far prevalere le ragioni del profitto sulla tutela della salute umana, non l’ha avvantaggiata. Negli Stati Uniti e in Brasile, dove il lockdown non è stato deliberato a livello nazionale, ma soltanto da alcuni Stati e in maniera non omogenea, i contagi e i decessi hanno raggiunto i picchi più alti, ma la produzione e l’occupazione non sono diminuite di meno.
Che questa crisi abbia caratteristiche del tutto inedite rispetto alle crisi di sovrapproduzione è desumibile anche dall’entità delle contrazioni di tutti gli indicatori economici e dalla difficoltà degli istituti di ricerca di fare delle previsioni attendibili perché, come scrive l’Istat in premessa al rapporto Prospettive per l’economia italiana, reso pubblico l’8 giugno 2020, «quantificare l’impatto dello shock senza precedenti che sta investendo l’economia è un esercizio connotato da ampi livelli di incertezza rispetto al passato, quando la persistenza e la regolarità dei fenomeni rappresentavano una solida base per il calcolo delle previsioni». In effetti i dati che vi sono riportati differiscono da quelli della Banca d’Italia e da quelli pubblicati dall’Ocse nel rapporto Prospettive economiche, presentato a Parigi il giorno dopo. Secondo l’Istat il Pil italiano, che nel primo trimestre è diminuito del 5,3 per cento, alla fine dell’anno farà registrare una riduzione dell’8,3 per cento. Il governo prevede che la diminuzione sia del 9 per cento, la Banca d’Italia che oscilli tra il 9,2 e il 13 per cento, l’Ocse che sia dell’11,3 per cento, ma, se ci sarà una ripresa dei contagi che costringa a bloccare di nuovo le attività produttive e a chiudere le persone in casa, la diminuzione del Pil arriverebbe al 14 per cento. Tutti gli studi prevedono un rimbalzo nel 2021: l’Istat del 4,6, Bankitalia del 4,8, l’Ocse del 7,7 e del 5,3 in caso di una ripresa della pandemia. Per quanto riguarda l’occupazione, l’Istat prevede una diminuzione del 9,3 per cento di unità di lavoro (un indicatore calcolato dividendo il numero delle ore lavorate a livello nazionale nel corso dell’anno per il numero di ore di lavoro annuali di un occupato a tempo pieno) che corrispondono a una riduzione di 2 milioni di posti di lavoro a tempo pieno rispetto ai 24 milioni attuali. Per Bankitalia la riduzione delle unità di lavoro dovrebbe essere di 1 milione.
Riduzioni molto marcate del Pil s sono verificate in tutti i Paesi ed è previsto che aumentino ulteriormente. Nell’Unione Europea la contrazione nel primo trimestre dell’anno è stata del 3,8 per cento. La Commissione Europea prevede che alla fine dell’anno arriverà all’8,3 per cento (al 9 per cento nell’Eurozona), se non ci sarà in autunno una nuova ondata di contagi, che in alcuni Paesi potrebbero spingerla fino al 14 per cento. La riduzione del Pil a livello mondiale dovrebbe attestarsi al 6 per cento.
I dati a consuntivo sono sempre peggiori delle previsioni. Delle due, l’una: o la crisi è così grave che gli strumenti abituali di analisi non sono più in grado di prevedere la sua evoluzione, o gli istituti di ricerca diffondono previsioni inferiori a quelle reali per attenuare l’impatto negativo che avrebbero sull’opinione pubblica e sugli operatori economici. In un caso e nell’altro è lecito supporre che la crisi economica sia più grave di quanto viene comunicato. In Italia, nel secondo trimestre il Pil è diminuito del 12,4 per cento rispetto al primo trimestre e del 17,3 per cento dall’inizio dell’anno. La riduzione prevista per la fine dell’anno dall’Istat è passata dall’8,3 al 14,3 per cento. Riduzioni maggiori si sono verificate in Francia, dove il Pil è diminuito del 13,8 per cento rispetto al primo trimestre, e in Spagna, dove è crollato del 18,5 per cento (si stima che alla fine dell’anno faccia registrare una diminuzione del 22,1 per cento). Poiché in Francia e in Spagna lo stato di emergenza è stato dichiarato una settimana dopo che in Italia, non è infondato dedurre che la prevalenza accordata alla tutela della salute sul profitto è stata meno dannosa per il profitto della prevalenza che gli è stata accordata rispetto alla tutela della salute. E ciò conferma l’anomalia di questa crisi economica rispetto a quelle del passato.
In Germania la diminuzione del Pil nel secondo trimestre è stata del 10,1 per cento rispetto al valore del primo trimestre; nell’Eurozona del 12,1 per cento (-15 per cento rispetto al secondo trimestre del 2019), nei Paesi dell’Unione europea dell’11,9 (-14,4 per cento rispetto al secondo trimestre del 2019). Sulla base di questi dati la previsione della diminuzione del Pil dell’Unione europea alla fine dell’anno rispetto al valore del 2019, è stata aggiornata dall’8,3 all’11,2 per cento. Il rimbalzo nel 2021 dovrebbe essere soltanto del 6 per cento.
Negli Stati Uniti il rapporto pubblicato il 22 aprile dal Dipartimento del Lavoro ha registrato che 26,4 milioni di americani, circa il 16 per cento della forza lavoro, avevano chiesto il sussidio di disoccupazione nelle cinque settimane precedenti. Ciò ha destato una forte preoccupazione e molte persone, alcune delle quali armate, in sintonia col presidente Donald Trump hanno organizzato manifestazioni, chiedendo ai governatori di alcuni Stati che avevano posto limitazioni alle attività produttive e alla libertà di movimento delle popolazioni, di revocarle. Un video emblematico, che ha fatto il giro del mondo, ha testimoniato la contrapposizione che si è creata nel Paese tra chi ritiene che la salute sia più importante del lavoro e chi ritiene che il lavoro sia più importante della salute. Nel video, registrato il 19 aprile a Denver, si vedono alcuni infermieri fermi in mezzo alla strada davanti all’ingresso di un ospedale, che bloccano un corteo automobilistico di manifestanti esagitati.
Secondo i dati pubblicati il 30 luglio dal Bureau of Economics Analysis, nel secondo trimestre dell’anno il Pil degli USA si è contratto del 32,9 per cento su base annua. È il dato peggiore nella storia del Paese e il secondo calo trimestrale consecutivo, per cui gli Usa sono entrati ufficialmente in recessione. A quella data i disoccupati erano 17 milioni (con un aumento di 867 mila in una settimana), il numero dei contagiati dal virus era salito a 4.620.000 e il numero dei decessi a 155.000. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, alla fine dell’anno il Pil degli Stati Uniti farà registrare una diminuzione del 6,6 per cento, mentre l’indice di disoccupazione dovrebbe triplicarsi rispetto al 2019, passando dal 3,5 al 9,7 per cento.[1]
Per superare questa crisi e far ripartire l’economia gli Stati hanno stanziato in deficit somme che non hanno precedenti. Il 20 luglio il Consiglio europeo (l’organismo composto dai capi di Stato o di governo dei 27 Paesi che fanno parte dell’Unione Europea) ha deliberato di stanziare 750 miliardi di euro da dividere tra i Paesi più colpiti dalla crisi, 390 di contributi a fondo perduto e 360 di prestiti a basso tasso d’interesse. All’Italia sono stati assegnati, dopo estenuanti trattative, 209 miliardi, di cui 82 in contributi e 127 in prestiti, da investire entro il 2023 e rimborsare tra il 2026 e il 2058. Questa somma va ad aggiungersi agli 80 miliardi già stanziati dal governo con i decreti Liquidità (8 aprile) e Rilancio (19 maggio).
Al ritorno in Italia, dopo quattro giorni di trattative a oltranza in cui era riuscito ad avere questo contributo superando l’opposizione di alcuni Paesi del Nord Europa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stato accolto come un salvatore della patria. Aver ottenuto quella somma è un ottimo risultato, con qualche ombra da diradare, ma il contributo che può dare al superamento della crisi economica ed ecologica dipende da come sarà spesa. Se sarà investita per sostenere i settori produttivi che hanno trainato l’economia dei Paesi industriali dalla fine della seconda guerra mondiale all’anno scorso, ma hanno dato i maggiori contributi alla crisi ecologica che l’ha bloccata – gli idrocarburi, le grandi opere, l’automobile, l’edilizia e il consumo di suolo, a cui negli ultimi anni si è aggiunto il trasporto aereo – la ripresa economica sarà breve perché rafforzerà le cause della crisi ecologica. Se, invece, verrà utilizzata per sostenere lo sviluppo delle innovazioni tecnologiche e dei cambiamenti sociali che consentono di rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, può dare un contributo decisivo ad aprire una nuova fase della storia umana. Perché questa è la posta in gioco, anche se pochi se ne rendono conto. La pandemia scatenata dal coronavirus è una cesura storica: ha chiuso rapidamente e drammaticamente l’epoca iniziata nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale, ponendo l’umanità davanti al compito di progettare un diverso tipo di società, un diverso tipo di economia, un diverso sistema di valori. Non sembra che il messaggio sia stato recepito, nemmeno dai governi che hanno gestito con responsabilità e fermezza la pandemia, facendo prevalere la tutela della salute sulla tutela del profitto. Le scelte fatte dal governo italiano con i decreti Liquidità, Rilancio e Semplificazioni, ma soprattutto affidando a una task force composta da manager di aziende multinazionali e da economisti main stream il compito di definire le linee guida della ripresa, non sembrano riflettere questa consapevolezza.
[1] Cfr. Il fatto Quotidiano on line, 17 luglio 2020: Coronavirus, Fmi stima calo record del Pil Usa nel secondo trimestre: -37%. “Danni economici enormi”. Il 2020 si chiuderà a -6,6%.
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