“DECRESCITA FELICE” È LOTTA AGLI SPRECHI
di Maurizio Pallante, da Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2020
Le riflessioni di Massimo Fini sulla decrescita, pubblicate sul Fatto Quotidiano del 5 marzo, m’inducono a intervenire sul tema per precisare alcuni concetti. Non lo faccio volentieri perché l’ho fatto più volte e ho sempre constatato che se c’è chi non viene ascoltato, tra cui si annovera lo stesso Fini insieme a Ratzinger, a me succede di non essere nemmeno letto. Come si deduce dal fatto che alla decrescita felice vengono rivolte sempre le stesse critiche, da chi critica l’idea che se ne è fatta e non ciò che significa.
Una precisazione preliminare sulla definizione: tutti l’attribuiscono a Latouche, che non l’ha mai utilizzata e l’ha scritto più volte, mentre invece è il titolo di un mio libro pubblicato nel 2005, dove l’ho formulata, per cui ritengo di esserne l’interprete autorizzato. Innanzitutto non bisogna confondere il concetto di decrescita, che è una riduzione volontaria, selettiva e governata della produzione di merci che non hanno alcuna utilità e creano danni, col concetto di recessione, che consiste in una riduzione generalizzata della produzione di tutte le merci, utili e inutili, non scelta, ma subita a causa di una congiuntura economica, o di una dinamica biologica come l’attuale diffusione del Covid-19. La conseguenza sociale più grave della recessione è l’aumento della disoccupazione. La conseguenza più interessante della decrescita, oltre la riduzione dell’impatto ambientale, è un aumento dell’occupazione utile, l’unica che può dare risultati anche numericamente significativi. Per argomentare questa affermazione occorre precisare, come ho già fatto molte volte, che la decrescita felice non si realizza con la riduzione dei consumi superflui, che, come è stato suggerito a Fini da Carlo Maria Cipolla, attengono alle preferenze soggettive degli individui, su cui sui nessuno ha diritto d’intervenire. La riduzione dei consumi che la decrescita felice auspica è la diminuzione dei consumi oggettivamente inutili, cioè degli sprechi. Per esempio, l’energia che si spreca negli edifici costruiti male, quelli classificati in classe G, ammonta ai due terzi degli edifici in classe C, ai 9 decimi degli edifici in classe A. Non conosco nessuno che, per quanto ricco, dovendo comprare una casa, desideri che sia piena di spifferi perché si può permettere di pagare bollette energetiche alte. Poiché in Italia gli edifici consumano nella stagione invernale tanta energia quanta ne consuma il trasporto automobilistico in un anno, se il governo, invece di proporsi di accrescere il debito pubblico per sostenere una crescita che, se ci sarà, aggraverà la crisi ecologica, proponesse la ristrutturazione di tutti gli edifici esistenti per ridurre i loro consumi energetici, quanta occupazione si creerebbe? Ma, cosa ancor più interessante, questa occupazione ridurrebbe le emissioni di CO2 e gli investimenti si pagherebbero in un certo numero di anni con la riduzione dei costi di gestione energetica, senza bisogno di accrescere il debito pubblico. Le stesse considerazioni valgono per il cibo che si butta (un terzo di quello che si produce), per i materiali riutilizzabili contenuti negli oggetti dismessi che vengono interrati o bruciati mentre si ciancia di economia circolare, per le perdite delle reti idriche (i 2 terzi dell’acqua pompata dalle falde), per l’obsolescenza programmata, per l’abuso di medicine ecc. Lo sviluppo di innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre il consumo di risorse e le emissioni inquinanti mediante una decrescita selettiva e governata degli sprechi, non comporterebbe un miglioramento della qualità delle nostre vite? Tutti coloro che, non avendolo capito, ridicolizzano la decrescita felice, non sono un po’ corresponsabili per la persistenza dei problemi ambientali, occupazionali e sociali causati dalla finalizzazione dell’economia alla crescita e dell’infelicità che ne deriva?