IMPOVERIRE I BOSCHI È LA NEGAZIONE DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA

(di Dante Schiavon)

Preoccupa vedere lo scempio di un’ampia porzione di bosco nelle Prealpi Trevigiane/Bellunesi. Preoccupa per la perdita dei valori ecologici dell’area, capace di fornire quei servizi ecosistemici divenuti ancor più dei “servizi pubblici essenziali” nel tempo dei cambiamenti climatici. Preoccupa per la perdita di “paesaggio”, un “bene demaniale immateriale” garantito dalla Costituzione. Preoccupa per la “tenuta idrogeologica” di quel pendio, arato ed eroso meccanicamente per il taglio e l’asporto del legname, ignorando la ricchezza biologica e naturalistica del sottobosco. Altrettanto preoccupante è la leggerezza, la disinvoltura, la faciloneria con cui si procede a un “taglio raso” di un’ampia porzione di bosco, tanto che l’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico ha inoltrato una specifica istanza di accesso civico e informazioni ambientali http://gruppodinterventogiuridicoweb.com/2021/11/27/tagli-boschivi-a-raso-nelle-prealpi-venete-ma-sono-stati-autorizzati/ per verificare la legittimità di quei tagli in un’area tutelata con specifico vincolo paesaggistico (decreto legislativo n.42/2004 e s.m.i.). Lo squarcio che si è aperto nell’abetaia lungo il versante sud delle Prealpi Trevigiane/Bellunesi è l’ultimo di una serie di ripetuti e ciclici tagli boschivi che hanno accompagnato la recente storia selvicolturale dei dodici chilometri sulla dorsale prealpina che vanno dal Rifugio Posa Puner a Passo Praderadego. Nel raccontarla, seppur succintamente, si finisce così per entrare, inevitabilmente, nel terreno franoso e ambiguo del “lavaggio verde” con cui le “istituzioni” e “leggi ad hoc” giustificano i tagli boschivi. La storia selvicolturale dell’ultimo decennio di quell’area è caratterizzata da alcune operazioni di tagli boschivi che si sono succedute nel tempo, concluse le quali, l’ecosistema montano è diventato più fragile. Meno di 10 anni fa veniva tagliata a raso una porzione di bosco fra Forcella Mattiola e Malga Salvedella per ripristino, almeno così recitava un cartello, di attività agro pastorali, ma dopo il taglio boschivo non si è vista nessuna traccia di una fantomatica ripresa di attività agropastorali. È poi la volta di un altro taglio boschivo, questa volta per la costruzione di una strada tagliafuoco tra Malga Salvedella e Forcella della Fede. Una strada forestale collaudata nel 2013 con il passaggio di enormi camion e grossi mezzi meccanici per la raccolta e la scortecciatura dei tronchi e con un ulteriore taglio boschivo a monte e a valle della strada tagliafuoco. Poi, come se non bastasse il taglio boschivo ad opera dell’uomo, in quel corridoio artificiale nell’ottobre del 2018 si è incanalato l’impeto distruttivo di Vaia, tanto che la strada tagliafuoco ancora oggi presenta ai propri lati un significativo accumulo di tronchi a terra, oltre ad essere ricoperta di detriti della roccia sedimentaria a seguito dell’erosione meccanica per la sua costruzione. I danni di Vaia sembrano essere anche la “motivazione trainante” dello scempio più recente, nel tratto tra Monte Canidi e Col Varnada: bisogna solo capire se una dozzina di abeti rossi caduti in prossimità della dorsale giustifichino le dimensioni e le modalità di un taglio raso di quelle proporzioni. Bisogna anche capire come potrà una superficie boschiva, così erosa e denudata, dare il suo contributo nella prevenzione del dissesto idrogeologico. In tutti i casi elencati la catena “democratica” delle istituzioni, delle leggi, delle categorie produttive, giustificano, legalizzano, legittimano l’avanzare meccanico di ruspe, trattori, verricelli e motoseghe: è il frutto della cultura produttivista, quella del Pil come valore assoluto e assolutistico che annulla, anche in piena emergenza climatica, qualsiasi altra visione. Quello che accade in questi boschi sta accadendo anche in altri territori del nostro paese e sta accentuando il dissesto idrogeologico e franoso, gli effetti dei cambiamenti climatici, la frammentarietà degli habitat e degli areali per la fauna selvatica. È la conseguenza di un grande equivoco di fondo che permea anche la strategia europea sulle energie rinnovabili e, a cascata, le decisioni dei governi nazionali che ruotano attorno ad un concetto scientifico interpretato in modo astratto e astruso: le piante ricrescono. Il “concetto scientifico” della “ricrescita degli alberi”, come interpretato dalle istituzioni, dalle leggi e anche da una parte degli addetti ai lavori nel settore forestale, viene applicato meccanicamente, senza considerare l’elemento “spazio” e l’elemento “tempo”. Fra quanti anni un eventuale rimboschimento su quella superficie oggetto dello scempio permetterà ai nuovi alberi di catturare la stessa quantità di CO2 e di attenuare il dilavamento della stessa quantità di acque meteoriche? Come può essere raggiunto l’obiettivo della riduzione delle emissioni di CO2 se tagliamo gli alberi e per un “delta temporale” diminuiamo la loro presenza o, peggio, usiamo la legna per alimentare le centrali a biomasse, contribuendo ad aumentare la CO2 immessa in atmosfera? Ci sono ancora due domande a cui va data una risposta. La prima: l’impegno a piantare mille miliardi di alberi entro il 2030, contenuto nella dichiarazione risolutiva del vertice del G20 tenutosi a Roma, deve tener conto degli albericidi forestali (comprendendo gli effetti degli incendi dolosi) e degli albericidi urbani che vengono commessi nello stesso periodo? La seconda: ci sono gli spazi, i luoghi adatti a ospitare nuovi alberi in territori situati in contesti naturalistici bellissimi e fragili ma assediati dalla cementificazione, per non parlare degli ambiti urbanizzati in cui il suolo viene predato in modo criminale? Un astratto e strumentale “riduzionismo scientifico” sul concetto di “ricrescita degli alberi” e un arrogante “pensiero produttivista” sono purtroppo, in Italia, il filo conduttore del TUFF, il Testo Unico sulle Foreste e le Filiere Forestali. Nel TUFF si incentiva l’uso del legno per alimentare centrali a biomassa, si perpetua il taglio a ceduo interrompendo l’evoluzione dei boschi di nuova formazione in boschi maturi, i soli capaci di fornire appieno importanti servizi ecosistemici che è quello che richiederebbe l’attuale “crisi climatica”. Nel TUFF non c’è spazio per quello che dovrebbe essere lo scopo principale di una “transizione ecologica”: la “conservazione” e “l’ampliamento del nostro patrimonio forestale”, il graduale passaggio a “fustaia” della selvicoltura a “ceduo” per ricavare, con tagli selettivi, legname da opera e non per alimentare centrali a biomassa. Lo “sfruttamento intensivo” delle foreste e la “deforestazione urbana” vanno combattuti con tutti gli strumenti a nostra disposizione, a partire dall’articolo 43 della Costituzione, in base al quale i “beni comuni” devono essere oggetto di tutela e i “servizi ecologici” forniti dagli alberi e dalle foreste sono “servizi pubblici essenziali”, oggi più di ieri.

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