Introduzione di Maurizio Pallante all’Assemblea Nazionale annuale 2021 di SEQUS
Questa assemblea nazionale – la prima in presenza dopo quella in cui abbiamo fondato la nostra associazione il 27 ottobre 2019 a Roma – si svolge a pochi giorni dalla chiusura della Cop 26 a Glasgow, per cui non possiamo evitare di introdurre il nostro dibattito con una valutazione, per quanto sommaria, dei suoi risultati.
La locuzione sarcastica con cui i romani si rivolgono a una persona che dimostra di non capire un’ovvietà, è: «Ma ce sei, o ce fai?». Significa: sei limitato mentalmente (ce sei) e non capisci, o fingi furbescamente di non capire (ce fai) perché pensi che ti convenga? Questa domanda, che non offre all’interlocutore la possibilità di dare una risposta dignitosa – tertium non datur – può aiutarci a capire come mai, nonostante 26 Cop (conferenze delle parti), in cui dal 1992 i delegati dei governi di 180 / 190 Paesi si sono incontrati periodicamente per definire una strategia comune e gli impegni di ciascun Paese per ridurre le emissioni di gas climalteranti, queste emissioni siano costantemente aumentate.
A parte qualche inevitabile eccezione di delegati tecnici e di deleganti politici che non capivano ciò di cui si discuteva (che “ce sono”), come è possibile che la stragrande maggioranza dei tecnici, il fior fiore delle intelligenze e delle competenze professionali di ogni Paese abbia ripetuto per trenta anni gli stessi errori? In una trasmissione radiofonica andata in onda il 22 novembre, poco dopo la chiusura della Cop 26 a Glasgow,1 il ministro della Transizione ecologica Cingolani, un tecnico con una caratura politica, polemizzando con Greta Thunberg, che nelle manifestazioni di protesta contro l’inconcludenza della Cop 26 aveva accusato i governi di tutti i Paesi di fare solo dei bla bla sulle politiche ambientali, ha detto: «Credo che se c’è qualcuno che non fa blablabla sono io. Greta l’ha detto a me, ma anche agli altri attivisti che ci sono rimasti molto male. Quando uno dice che tutto il mondo è fatto da imbecilli, poi deve farsi qualche domanda». In realtà Greta non ha detto che i delegati dei governi riuniti a Glasgow sono imbecilli. Non ha detto che ce so’, ma che ce fanno. Che è molto peggio perché, pur essendo consapevoli della gravità raggiunta dalla crisi climatica, hanno continuato, come i loro predecessori, a riproporre i tentativi fallimentari di attenuarla cercando di disaccoppiare la crescita economica dalla crescita delle emissioni climalteranti. Erano davvero convinti che fosse possibile lasciar crescere i consumi di energia e materia necessari a sostenere la crescita della produzione di merci e ridurre al contempo le emissioni di anidride carbonica? Questa strategia può essere efficace solo se gli incrementi annui dell’energia prodotta con fonti rinnovabili, che non emettono gas climalteranti, sono maggiori degli incrementi annui dei consumi energetici richiesti dalla crescita della produzione e dei consumi. Trent’anni d’insuccessi non sono sufficienti per rendersi conto che forse sarebbe meglio cercare un’altra strada? Per esempio tentare di abbinare lo sviluppo delle fonti rinnovabili con una riduzione selettiva dei consumi energetici che si può ottenere aumentando l’efficienza dei processi di trasformazione energetica e riducendo gli sprechi; producendo beni durevoli che durino davvero invece di essere progettati con un’obsolescenza programmata per accelerare i processi di sostituzione, e siano riparabili in caso di guasti imprevisti; riutilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi per produrre altri oggetti invece di bruciarli negli inceneritori o interrarli nelle discariche; ponendo limiti alle delocalizzazioni per ridurre gli spostamenti delle merci a uso finale, della componentistica e dei semilavorati; favorendo la commercializzazione di prossimità dei prodotti agricoli e imponendo il ridimensionamento degli allevamenti industriali.
Un disaccoppiamento temporaneo tra la crescita delle emissioni di gas climalteranti e la crescita del prodotto interno lordo in realtà si è verificato, ma solo per un breve periodo, tra il 2015 e il 2016 in Cina e negli Stati Uniti, in conseguenza dell’incremento della quota del metano e della riduzione della quota del carbone nel mix energetico di quei Paesi, ma la crescita dell’economia ha continuato a far crescere i consumi energetici e dopo appena due anni, secondo i dati riportati nella ricerca Il mito della crescita verde pubblicata nel 2019 dall’European Environmental Bureau, le emissioni di gas serra hanno ricominciato a crescere, dell’1,6% nel 2017 e del 2,7% nel 2018, perché il metano le dimezza rispetto al carbone, ma non le annulla.
Per nascondere i sistematici fallimenti dei tentativi di conciliare la crescita economica con la diminuzione delle emissioni di gas serra, alla Cop 21, che si è svolta a Parigi nel dicembre del 2015, è stato spacciato come un successo l’accordo faticosamente raggiunto di ridurre gli incrementi della temperatura media terrestre con l’obbiettivo di non superare di più di 1,5 °C, massimo 2 °C i valori dell’epoca pre-industriale. Ma la riduzione di un incremento è comunque un incremento, non è una diminuzione, come è stato fatto credere all’opinione pubblica col generoso sostegno dei mass media. Tuttavia l’esito è stato un fallimento, perché non si è ottenuta nemmeno una riduzione dell’aumento delle emissioni di gas serra. Nel 2015 la loro concentrazione in atmosfera era di 400 ppm, a maggio del 2020 era salita a 417,9 ppm, con un incremento maggiore a quello dei cinque anni precedenti, e la temperatura della terra era arrivata ad aumentare di 1,1 °C rispetto all’epoca pre-industriale. Un anno dopo, a maggio del 2021, nonostante il confinamento in casa delle popolazioni e la forzata riduzione delle attività produttive in conseguenza della pandemia, ha raggiunto le 419,1 ppm.
Purtroppo il peggio doveva ancora venire. Al G20 di Roma, nell’ottobre del 2021, è stato ribadito l’impegno di contenere l’incremento della temperatura terrestre in 1,5 °C rispetto ai valori dell’epoca pre-industriale. Nella bozza del documento finale si precisava che per non superare quel limite era necessario raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, altrimenti alcuni fenomeni innescati dall’effetto serra avrebbero raggiunto il punto di non ritorno [scioglimento della calotta polare artica, arresto della corrente del golfo, scioglimento del permafrost], rendendo il pianeta inabitabile per la specie umana. Nel documento finale la scadenza precisa del 2050 è stata sostituita da un generico «entro o attorno la metà del secolo». Trovato un accordo che, violando le indicazioni dei climatologi, accentua irresponsabilmente i pericoli che incombono sul futuro dell’umanità, i capi di Stato e di governo sono stati accompagnati alla Fontana di Trevi dove, in fila come studenti in gita scolastica, hanno gettato una monetina nell’acqua.
Alla Cop 26 di Glasgow, dove la stessa compagnia di giro è arrivata qualche giorno dopo, si è ripetuto per la ventiseiesima volta il tentativo di conciliare la riduzione delle emissioni climalteranti con la crescita della produzione e del consumo di merci. Con un peggioramento ulteriore rispetto ai venticinque tentativi precedenti: la proposta d’inserire ope legis l’energia nucleare e il metano con sequestro e stoccaggio dell’anidride carbonica prodotta dalla sua combustione, tra le tecnologie ecologiche sul cavallo di Troia della tassonomia verde. Un’operazione che ricorda la distopia descritta da George Orwell nel romanzo 1984, dove il regime affermava che «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza». O più banalmente la mozione con cui il Senato italiano il 31 marzo 2009 dichiarava l’inesistenza dei cambiamenti climatici.
La tassonomia elaborata dalla Commissione europea indica sei obbiettivi ambientali e climatici: mitigazione del cambiamento climatico; adattamento al cambiamento climatico; uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche a riduzione e riciclo dei rifiuti; prevenzione e controllo dell’inquinamento; protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi. Per essere dichiarata eco-compatibile, un’attività deve soddisfare i seguenti criteri: contribuire positivamente ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali; non produrre impatti negativi su nessun altro obiettivo; essere svolta nel rispetto di garanzie sociali minime. Le attività che verranno definite eco-compatibili avranno il diritto di ricevere gli incentivi finanziari previsti dall’Unione europea.2
L’energia nucleare da fissione e il metano con sequestro e stoccaggio dell’anidre carbonica:
– non contribuiscono a ridurre le emissioni climalteranti del 55 per cento entro il 2030 e del 100 per cento entro il 2050;
– hanno un forte impatto ambientale e sono tecnologie molto pericolose;
– richiedono costi d’investimento molto alti, sottraendo risorse finanziarie alle energie rinnovabili, che hanno un impatto ambientale e costi molto inferiori, contribuiscono in tempi brevi a ridurre le emissioni di gas serra e non presentano rischi.
L’energia nucleare e il metano con sequestro e stoccaggio dell’anidride carbonica non hanno le caratteristiche richieste per essere inserite tra le energie eco-compatibili, ma sono sostenute da lobbies molto potenti, che senza sostegni di denaro pubblico non ne finanzierebbero con fondi propri le installazioni.
Sull’impatto ambientale e i rischi del nucleare non è necessario aggiungere nulla a quanto è stato già detto dagli scienziati sensibili ai problemi ecologici negli ultimi 50 anni, ma soprattutto è stato dimostrato dagli incidenti avvenuti nelle centrali atomiche, in particolare a Chernobyl nel 1986 e a Fukushima nel 2011. I rischi di incidenti sono destinati ad aumentare in conseguenza del fatto che gran parte delle centrali in funzione hanno raggiunto e superato i limiti degli anni di funzionamento in (relativa) sicurezza previsti in fase di progettazione.3 Il problema ambientale e sanitario più grave causato da questa tecnologia, perché è non aleatorio come gli incidenti, ma intrinseco, è costituito dalla mancanza di soluzioni tecniche in grado di garantire una gestione sicura delle scorie fino al decadimento della loro radioattività a livelli non dannosi per la salute e gli ecosistemi. Si tratta di periodi che vanno da 300 anni per le scorie a molto bassa e bassa attività, a centinaia di secoli per le scorie a media e alta attività. Ammesso e non concesso che si possano realizzare centrali nucleari a fissione di quarta generazione, intrinsecamente sicure, se venisse presentata oggi la documentazione necessaria per avere le autorizzazioni a costruirle potrebbero entrare in funzione soltanto tra il 2030 e il 2040. Tra quanti decenni potrebbero entrare in funzione le centrali a fusione, di cui si parla da almeno mezzo secolo? Come si possono rispettare nel frattempo le scadenze stabilite dalla legge europea, che impone ai Paesi dell’Unione di ridurre le emissioni di gas climalteranti del 55 per cento entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050?
Anche la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica presentano problemi tecnici non risolti e rischi. Per immagazzinarla occorre innanzitutto ridurla allo stato liquido e poi insufflarla in cavità geologiche che devono essere in grado di contenerla per centinaia di anni. In genere i siti geologici adatti allo scopo sono giacimenti di idrocarburi esauriti, dove l’immissione dell’anidride carbonica liquida fa risalire in superficie gli idrocarburi residui, rendendoli utilizzabili. Il rischio insito in questa tecnologia consiste nel fatto che non può garantire che l’anidride carbonica non fuoriesca sotto forma di gas dalle cavità geologiche in cui è stata immagazzinata. In conseguenza di terremoti o modificazioni delle strutture in cui è contenuta se ne possono riversare all’esterno enormi quantità che ucciderebbero per asfissia tutti i viventi nell’area in cui si diffonde. Un evento di questo genere si è verificato nel 1986 in Camerun, dove ha provocato la morte di 1.700 persone. Se invece il rilascio fosse graduale e silenzioso vanificherebbe l’obbiettivo stesso di questa tecnologia.
La fede nella scienza come strumento salvifico e lo sguardo puntato in un futuro che sarà reso migliore dai suoi progressi, non ha impedito al ministro Cingolani di dire, nella citata trasmissione radiofonica in cui ha polemizzato con Greta Thunberg: «Adesso è difficile con le tecnologie attuali pensare che il nucleare possa essere una soluzione. Bisogna continuare studiare e sviluppare: lo dice la Von der Leyen e lo dice anche Macron. [E se lo dicono loro… ndr]. La fusione risolverà i nostri problemi, tra qualche decade forse. Però questo è il momento di investire in tecnologie che in futuro ci permetteranno di accelerare. Quindi la mia risposta al nucleare è convintamente sì, purché non si vada a slogan o seguendo vecchie tecnologie. È arrivato il momento di studiare, sviluppare e fare innovazione. Senza questo, la battaglia non la vinciamo».
Preparare oggi le premesse di un futuro luminoso in cui, tra qualche decade forse, tutti gli attuali problemi della specie umana saranno risolti dalla superpotenza della fusione nucleare? Ma se entro 8 anni non si riducono di oltre la metà le emissioni di gas serra, il malato non sarà morto prima che sia pronta la medicina miracolosa studiata per salvarlo? Nel frattempo cosa si può fare? Il ministro della transizione ecologica non si pone il problema di come ridurre le emissioni di gas serra ora, ma i costi del metano con cui il Paese soddisfa il suo fabbisogno energetico, che considera una variabile dipendente esclusivamente dalla crescita economica. E per ridurli l’unica soluzione che immagina è accrescere la produzione di metano da impianti ubicati sul territorio nazionale appartenenti a società italiane. Secondo il ministro: «Il problema è che il caro bollette dipende dall’aumento enorme del prezzo del gas. La speranza è che nella seconda metà del prossimo anno il prezzo del gas scenda. È chiaro che siamo nelle mani di un mercato globale e l’Italia è molto debole perché noi purtroppo importiamo quasi tutta l’energia. Noi abbiamo promesso di combattere il cambiamento climatico, ma a parità di volume di gas consumato ogni anno io cercherei il più possibile di prenderlo dai nostri giacimenti piuttosto che importarlo. Costerebbe meno». Non lo sfiora nemmeno l’idea che il modo più efficace per far diminuire i prezzi del metano è ridurne la domanda, realizzando progetti in cui l’abbinamento della produzione di energia rinnovabile con lo sviluppo delle tecnologie che aumentano l’efficienza energetica e riducono gli sprechi consente di ridurre drasticamente i consumi di fonti fossili, fino a eliminarle. Senza ridurre il benessere. Se i contributi stanziati dall’Unione europea per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, invece di essere destinati al nucleare e al metano con la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica, venissero utilizzati per sostenere questi progetti, consentirebbero non solo di ridurre la domanda, e quindi i costi, del metano, ma anche di mantenere la promessa di «combattere il cambiamento climatico».
Il governo precedente all’attuale governo dei migliori, di cui il ministro Cingolani è autorevole esponente, aveva concepito una buona norma che andava in questa direzione: il decreto-legge n. 34 del 19 maggio 2020, il cosiddetto superbonus, che copre il 110 per cento delle spese sostenute per ristrutturare energeticamente gli edifici, purché gli interventi realizzati per ridurre le dispersioni termiche e l’installazione di fonti rinnovabili facciano crescere di almeno 2 classi energetiche la loro efficienza. Ma l’aveva fatta nascere nel modo peggiore. Innanzitutto dandogli un limite temporale di due anni, poi prorogato di un anno e di un altro anno ancora. In secondo luogo erogando i contributi a fondo perduto. Gli obbiettivi della legge erano il rilancio dell’edilizia senza accrescere il consumo di suolo e il sostegno allo sviluppo delle tecnologie che riducono le emissioni di anidride carbonica senza ridurre il benessere termico, che anzi ne trae vantaggio. Per capire l’effetto che una misura del genere potrebbe avere basta pensare che gli edifici in Italia (come in tutti i Paesi ricchi) assorbono per il condizionamento termico e per il fabbisogno elettrico più della metà dei consumi energetici nazionali; che il 56 per cento degli edifici è in classe G, la meno efficiente, con consumi energetici superiori a 180 kilowattora al metro quadrato all’anno; che soltanto il 2 per cento degli edifici è in classe A, con consumi energetici inferiori a 15 kilowattora al metro quadrato all’anno. Le riduzioni delle emissioni che si possono ottenere in questo settore sono determinanti per raggiungere gli obbiettivi stabiliti dall’Unione europea.
Stabilendo un limite di due/quattro anni per accedere ai finanziamenti a fondo perduto stanziati per la ristrutturazione energetica degli edifici, il numero degli edifici che si possono ristrutturare è limitato e la riduzione delle emissioni climalteranti che si possono ottenere a livello nazionale è poco più che simbolica. Per avere risultati significativi il finanziamento deve avere un’estensione temporale di un altro ordine di grandezza. Inoltre l’aumento improvviso della domanda con una prospettiva temporale ridotta non può non innescare un aumento speculativo dei prezzi dei materiali, come è avvenuto, mentre il rilancio dell’edilizia diventa una fiammata che si spegne di colpo con la fine dei finanziamenti, facendo crollare l’occupazione. D’altra parte, per quanti anni il bilancio statale potrebbe continuare a finanziare a fondo perduto la ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio?
Questi problemi non si possono risolvere con un tira e molla sulla durata di applicazione della legge, ma con l’introduzione di correttivi strutturali nella sua formulazione a partire da una semplice osservazione. Poiché dopo la ristrutturazione energetica il valore della casa aumenta e le bollette energetiche si riducono, basterebbe che i percettori del contributo statale versassero mensilmente per un certo numero di anni allo Stato una percentuale del risparmio economico che hanno ottenuto dalla riduzione dei consumi, e si stabilisse che, per un certo numero di anni dopo la ristrutturazione, la vendita delle case fosse sottoposta a una tassazione che scoraggi speculazioni da cui trarrebbero vantaggio gli operatori economici del settore. Dal versamento di una percentuale dei risparmi sulle bollette energetiche lo Stato ricaverebbe un introito annuale da reinvestire in altre ristrutturazioni, mentre il contrasto all’uso speculativo dei finanziamenti alle ristrutturazioni energetiche consente di indirizzare i contributi statali a un numero maggiore di famiglie che non possono finanziarle con fondi propri.
M. Pallante