LA “RIGENERAZIONE URBANA” NON È (RI)GENERARE NUOVI PROFITTI E CONSUMO DI SUOLO.

La “rigenerazione urbana”, proprio per la sua connotazione “riparatrice” di un modo di governare privo di una logica urbanistica e sociale, deve sanare le situazioni di degrado che nel tempo si sono consolidate. La “rigenerazione urbana” non è solo una questione edilizia: bisogna mettere insieme tutti i pezzi del “puzzle urbanistico” che hanno portato un dato quartiere o borgo a una situazione di abbandono e di crescente spopolamento. Nel 2023 la “rigenerazione urbana” deve riguardare progetti da realizzare in luoghi diventati “non luoghi” e compiersi dopo un’analisi del “degrado edilizio” e delle cause che lo hanno determinato, quali la mancanza di servizi alla persona, assistenziali, sanitari, di negozi di prossimità, di trasporti, di centri di aggregazione, ponendosi magari l’obiettivo di arginare un eventuale processo di “spopolamento” in corso. Non deve poi comportare “nuovo consumo di suolo” per costruire nuove abitazioni e per ben tre ragioni. La prima: il calo demografico (da una ricerca della Ulss 2 Belluno emerge che in quei territori le morti doppiano le nascite). La seconda: già nel prossimo decennio il numero delle unità abitative disponibili a causa del prevalere dei decessi sulle nascite è destinato a salire. La terza: attualmente sono più di 7 milioni gli appartamenti non utilizzati nel nostro paese. Osservando però i progetti edilizi realizzati in nome della “rigenerazione urbana” è evidente come questa venga portata avanti solo in zone dove la “rendita immobiliare” può fare profitti. Siamo alle solite: è il mercato immobiliare che governa il territorio (e questo in Veneto avviene da decenni e con una “legge regionale fuffa sul suolo”). Ma la “rigenerazione urbana” non può riguardare solo la ristrutturazione di edifici e la loro riqualificazione edilizia, deve avere come obiettivo la “rivitalizzazione urbanistica e sociale” di un luogo, partendo proprio dal degrado ambientale, edilizio, sociale e culturale che si è prodotto nei decenni e che ha determinato l’esigenza di un “rigenerazione urbana”.
Si continua, con l’alibi della “riqualificazione edilizia” di una fabbrica chiusa o di un vecchio grande edificio abbandonato, a costruire, comprendendo magari 50/60 nuovi appartamenti sul suolo libero adiacente, spacciando il tutto per “rigenerazione urbana”.
L’operazione, che ricorda il film di Francesco Rosi “Mani sulla città”, avviene in aree, spesso congestionate, che non hanno nulla da rigenerare se non i profitti dei soliti costruttori. Solitamente sono aree molto densamente popolate o ben servite da infrastrutture e già dotate di servizi e per questo appetite dal mercato immobiliare. Sono aree che la “legge regionale fuffa sul suolo” definisce (per ubriacare la comprensione dei non addetti ai lavori) “ambiti di urbanizzazione consolidata” e in cui il consumo di suolo è in deroga (una delle sedici). Tutto questo “fervore rigenerativo” non sta riguardando borghi dove più della metà degli edifici sono in stato di abbandono e l’invecchiamento e lo spopolamento sembrano inarrestabili per la mancanza di servizi alla persona, di negozi, di trasporti e i giovani migrano, magari verso quei 50/60 appartamenti costruiti su suolo libero a pochi metri dalla fabbrica chiusa o del grande vecchio edificio abbandonato trasformati in un nuovo supermercato (l’ennesimo) o in un centro commerciale/direzionale e che la “rendita immobiliare” ha spacciato per “rigenerazione urbana”.
Nel 2023 la “rigenerazione urbana” deve riguardare aree degradate ed essere accompagnata, oltre che da una riqualificazione urbanistica ed edilizia, da una “pianificazione sociale” della qualità della vita dotando l’area interessata di servizi di trasporto, centri di aggregazione, servizi alla persona, servizi sociali, negozi di prossimità e certamente non comprendere nuovo consumo di suolo e nuovi immobili residenziali.
Nel 2023 la “rigenerazione urbana”, oltre alla necessità di far uscire dal degrado e dallo spopolamento quartieri, borghi, frazioni, deve “obbligatoriamente” fare i conti con la necessità di aumentare gli “spazi verdi” nei centri urbanizzati affinché il suolo possa erogare i suoi servizi ecosistemici (drenaggio e mitigazione delle piogge intense, assorbimento di CO2 e polveri sottili, mitigazione delle temperature estive): non può essere condizionata dall’ansia della “ripresa”. La necessità di usufruire di spazi ricoperti di vegetazione all’interno dei contesti urbanizzati non può essere accantonata e deve far parte “organicamente” del processo di “rigenerazione urbana”. La “rigenerazione urbana” quindi deve essere non solo una riqualificazione di edifici, ma anche una “rigenerazione sociale” e una “rigenerazione climatica”: è questa la modernità della politica urbanistica di cui abbiamo bisogno. I furboni della rendita fondiaria e troppi amministratori locali, grazie a una legislazione regionale compiacente, stanno manomettendo il significato della parola “rigenerazione urbana” a loro uso e consumo. La loro spregiudicatezza, poi, non conosce limiti. Quando portano a termine queste operazioni immobiliari, spacciandole per “rigenerazione urbana”, fanno piantare a favore di telecamera e dei social (magari dopo aver abbattuto alcune piante di alto fusto che assorbono grandi quantità di CO2) qualche alberello striminzito che la siccità farà morire dopo qualche mese o spacciano per “parco urbano” un terreno agricolo che confina con l’area della presunta rigenerazione urbana e che quindi già forniva i relativi servizi ecosistemici.
Tutta la partitocrazia è allergica a pronunciare la parola “stop al consumo di suolo”: cerca di svicolare in tutte le maniere, magari parlando di “rigenerazione urbana” e magari in cui si possa ancora consumare suolo. Quando l’ambientalismo veneto prenderà coscienza della necessità di raccogliere le firme per un “referendum abrogativo” della legge regionale veneta sul suolo e delle sue 16 deroghe?
Schiavon Dante