Le migrazioni attuali sono un’esigenza del modo di produzione industriale.
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Pubblichiamo in anteprima la prima parte del capitolo I del libro Il Diritto di non emigrare di Maurizio Pallante di prossima pubblicazione.
di Maurizio Pallante
Molti ritengono che gli attuali flussi migratori siano la riproposizione nell’epoca della globalizzazione di una tendenza insita nella natura umana. Tutta la storia è intessuta da spostamenti di popoli, o in cerca di territori più adeguati alle loro esigenze, o costretti ad abbandonare i luoghi che abitavano in seguito all’invasione di altri popoli. Le migrazioni non costituiscono un’eccezione nel flusso della storia, né necessariamente un problema, ma possono essere un’opportunità perché consentono ai popoli di entrare in rapporto tra loro, di scambiarsi esperienze, di arricchire le loro conoscenze e di progredire. Per cui non sarebbe soltanto vano, ma anche controproducente ogni tentativo di contrastarle.
In realtà, se il fenomeno viene osservato con attenzione si può vedere, innanzitutto, che non è mai stato rose e fiori, ma ha anche scatenato guerre, guerriglie e pulizie etniche. In secondo luogo che, a partire dalla rivoluzione industriale, nella seconda metà del settecento, ha assunto connotazioni diverse dal passato. I flussi migratori delle epoche storiche precedenti erano motivati per lo più dalla volontà, o dall’esigenza, di alcune popolazioni di conquistare nuovi territori da sfruttare economicamente, sottomettendo i precedenti abitanti, sterminandoli, o costringendoli a loro volta a emigrare. Erano movimenti di massa derivanti da scelte volontarie e di dominio. Le migrazioni iniziate con la rivoluzione industriale sono state invece spostamenti di masse crescenti di contadini e artigiani indotti, o costretti, a lasciare le loro precedenti attività, ai quali non restava altra scelta che andare a lavorare come proletari nelle città in cui si stavano insediando le prime fabbriche. Spostamenti imposti con forme di violenza legalizzata e di violenza illegale, finalizzate a rendere impossibile la permanenza di intere popolazioni nei loro luoghi d’origine, nelle attività lavorative con cui tradizionalmente ricavavano il necessario per vivere, nei rapporti sociali fondati sull’economia del dono e sulla solidarietà. Non sono stati trasferimenti territoriali volontari dettati da una volontà di dominio, ma migrazioni forzate da un’economia di sussistenza a un’economia mercificata, da una società agricola e artigianale a una società urbana e industriale. Da un’epoca storica a un’altra.
Nel modo di produzione pre-industriale – ancora vigente in alcuni Paesi del mondo che, per questa ragione, vengono definiti sottosviluppati – l’economia è finalizzata a produrre beni con un valore d’uso. Le attività principali sono l’agricoltura per autoconsumo e l’artigianato. Gli scambi mercantili si limitano alle eccedenze della produzione agricola rispetto al fabbisogno delle famiglie contadine e agli oggetti prodotti dagli artigiani per rispondere alla domanda di clienti che li ordinano. Il denaro è il mezzo attraverso cui avvengono gli scambi tra i produttori e gli acquirenti dei beni.
Nel modo di produzione industriale l’introduzione di macchine azionate da motori accresce la produzione e ne muta la finalità. I prodotti industriali non sono fatti su richiesta di persone che ne hanno bisogno, ma per essere venduti e ricavare dalla loro vendita più denaro di quanto ne è stato investito per produrli. Non vengono prodotti per il loro valore d’uso, ma per il loro valore di scambio. Pertanto, più se ne producono, più se ne possono vendere e più alti possono essere i profitti di chi li produce. Il denaro si trasforma da mezzo di scambio a fine delle attività produttive.
Per accrescere la produzione industriale non basta introdurre macchine sempre più efficienti nei cicli produttivi. Deve anche aumentare il numero degli occupati, ovvero di coloro che non producono beni per sé stessi o per persone che glieli ordinano, ma vendono la loro capacità di lavorare in cambio di una retribuzione monetaria con cui possono acquistare sotto forma di merci i beni necessari per vivere. I due serbatoi dove si possono attingere i lavoratori, di cui il modo di produzione industriale ha bisogno per accrescere la produzione e il consumo di merci, sono i contadini che praticano l’agricoltura di sussistenza e gli artigiani. Ma bisogna convincerli, o costringerli, ad accettare questo cambiamento. All’inizio della rivoluzione industriale, in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, furono emanate una serie di leggi che imponevano la recinzione delle terre agricole per favorire l’accorpamento delle proprietà, che erano molto frammentate in conseguenza delle suddivisioni ereditarie, e non consentivano l’introduzione delle tecniche agrarie che aumentavano la produttività. L’obbiettivo era la trasformazione dell’agricoltura da attività prevalentemente per autoconsumo in attività finalizzata alla vendita dei prodotti agricoli. Gli accorpamenti dei terreni furono effettuati in modo da favorire i grandi proprietari terrieri e danneggiarono i contadini, a cui furono assegnati gli appezzamenti meno fertili. Furono inoltre privatizzate le terre comuni, impedendo ai contadini di continuare a esercitare il diritto, che avevano da secoli, di portarvi al pascolo gli animali, di cacciare la selvaggina, di raccogliere la legna da ardere, le erbe e i frutti selvatici. Gli effetti combinati di queste due misure resero impossibile sopravvivere con l’agricoltura di sussistenza e i contadini furono costretti a emigrare nelle aree industriali, dove non avevano altra scelta che lavorare come operai. Del resto, se non l’avessero fatta spontaneamente, un’apposita legislazione puniva l’accattonaggio con la condanna alla reclusione da scontare lavorando in opifici-prigioni. Contestualmente, lo sviluppo dell’industria tessile metteva fuori mercato le stoffe tessute in casa con telai a mano dagli artigiani, che reagirono distruggendo i telai meccanici azionati dalle macchine a vapore, ma la loro rivolta, passata alla storia col nome di luddismo, fu sconfitta militarmente dall’esercito inviato in soccorso degli industriali. Da allora i sistemi coercitivi utilizzati per costringere i contadini e gli artigiani a trasferirsi dalla produzione di valori d’uso alla produzione di valori di scambio, dalle campagne alle città, sono stati integrati instillando nell’immaginario collettivo l’idea che questo passaggio costituisse un progresso indispensabile per accrescere il benessere e migliorare le condizioni di vita.
(La seconda parte dell’articolo è stata pubblicata mercoledì 26/02 ed è disponibile a questo link)
Photo by The New York Public Library on Unsplash
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