Elezioni 2022. Che fare?
6 settembre 2022

Dopo una lunga e ininterrotta serie di tentativi riusciti solo parzialmente, l’obbiettivo di trasformare il sistema politico-elettorale italiano sul modello di quello vigente negli Stati Uniti sembra avvicinarsi dopo la scelta del Presidente del Consiglio Mario Draghi di rassegnare le dimissioni il 21 luglio 2022, sebbene il Parlamento gli avesse confermato la fiducia con un’ampia maggioranza, seguita dalla decisione del Presidente della Repubblica di sciogliere anticipatamente le Camere e indire nuove elezioni il 25 settembre. Poiché l’attuale legge elettorale prevede che i 3/8 dei seggi, pari a 147 alla Camera e 74 al Senato, vengano assegnati col sistema maggioritario, i partiti che si sono presentati alle elezioni sono stati costretti a riunirsi in due principali raggruppamenti: uno conservatore, nazionalista e xenofobo, in cui sono confluiti i tre partiti della destra – Fratelli d’Italia, Lega Nord e Forza Italia – e uno guidato dal Partito Democratico che, essendo contrapposto alla destra, per una sorta di riflesso condizionato viene considerato di centro-sinistra, sebbene i suoi programmi di politica estera, economica, industriale e ambientale non siano sostanzialmente diversi da quelli dei suoi avversari, dai quali si differenzia sostanzialmente per una maggiore sensibilità nei confronti dei diritti civili. Entrambi i raggruppamenti danno più importanza alla ripresa dell’economia che all’attenuazione della crisi ecologica, di cui sottovalutano la gravità; negano l’impatto ambientale delle scelte di politica industriale che intendono perseguire per superare la crisi economica ed energetica: inceneritori, rigassificatori, centrali nucleari e centrali termoelettriche a gas con cattura delle emissioni di anidride carbonica; grandi opere di dubbia utilità da finanziare col debito pubblico perché non ammortizzerebbero mai i loro costi: linee ferroviarie ad alta velocità, estensione della rete autostradale, ponte di Messina. Entrambi gli schieramenti considerano la guerra tra la Russia e l’Ucraina una guerra tra il male e il bene e condividono la scelta di continuare a fornire armi e denaro alle forze del bene sostenute dalla Nato per favorire la loro vittoria, col risultato di allungare la durata del conflitto, aumentare la sofferenza della popolazione ucraina, aggravare le tensioni internazionali e rendere sempre più difficile una soluzione negoziata.
La sostanziale identità delle posizioni sostenute dai due schieramenti in politica interna e in politica estera inducono a dedurre che, in realtà, lo schieramento antagonista alla destra non possa essere definito di centro-sinistra, ma costituisca una variante moderata della destra, come succede negli Stati Uniti col Partito Democratico e il Partito Repubblicano. La progressiva riduzione dello spazio per alternative reali a queste due opzioni più formali che sostanziali, lascia senza rappresentanza politica settori sempre più ampi della popolazione, che reagiscono con l’astensionismo. Attualmente la percentuale degli elettori è scesa a circa il 50 per cento degli aventi diritto. Questo fenomeno, indipendentemente dal livello di consapevolezza con cui viene presa la decisione di non andare a votare, viene incoraggiato dalla casta politica con sistemi di selezione dei candidati alle elezioni che impediscono agli elettori di scegliere i loro rappresentanti; ignorando la volontà popolare se effettua scelte alternative a quelle condivise dalla destra e dal centro-destra, come si è verificato in Italia con la decisione politica di non rispettare l’esito del referendum sull’acqua pubblica e con la reiterazione, per la terza volta, della proposta di costruire delle centrali nucleari dopo due referendum che l’hanno bocciata; arrivando all’impudenza di sostenere apertis verbis la necessità di ridurre gli ambiti in cui la volontà popolare possa esprimersi.
Per acquisire una patina di sinistra e intercettare nella prossima scadenza elettorale una quota di elettori di quell’orientamento politico, lo schieramento di centro-destra guidato dal Partito Democratico ha inserito al suo interno il soggetto politico recentemente costituito dai Verdi e da Sinistra Italiana, che si è autorappresentato sotto forma di cocomero, verde fuori e rosso dentro, per simboleggiare la volontà di unire l’impegno ambientalista con l’impegno per la giustizia sociale. Non è difficile immaginare che, accettando di far parte di un raggruppamento che antepone la
ripresa economica all’attenuazione della crisi ecologica e alla tutela delle classi sociali più deboli, Verdi e Sinistra Italiana, a cui prima dell’accordo col Partito Democratico i sondaggi attribuivano il 4 per cento dei consensi elettorali, perdano una parte dei loro attivisti e dei loro elettori, riducendo il contributo di voti, già non esaltante, che potrebbero apportare all’alleanza e condannandosi all’irrilevanza politica. I prezzi, politici e umani, pagati dai due dirigenti dei partitini di sinistra per ottenere alcune candidature in quel raggruppamento politico, si sono manifestati nell’espressione smarrita dei loro volti alla conferenza di presentazione dei loro capilista alla stampa. Che l’operazione ordita dagli strateghi del raggruppamento di centro-destra non fosse win win, ma lose lose, è testimoniato inoltre dal fatto che questo accordo ha provocato la rottura dell’accordo precedentemente stretto dal Partito Democratico col partito Azione, che si colloca alla sua destra e, secondo i sondaggi, avrebbe apportato un contributo di voti pressoché equivalente.
Se le alleanze elettorali non vengono effettuate confrontandosi sui contenuti, ma calcolando il numero dei seggi che, in base ai sondaggi, i contraenti presumono di ottenere nei collegi uninominali, una valutazione numerica semplice semplice avrebbe dovuto indurre il Partito Democratico ad avviare una trattativa col Movimento 5 Stelle, che veniva accreditato a più del 10 per cento e aveva una connotazione politica non incompatibile con la sua. Evidentemente l’obbiettivo del Partito Democratico non è battere lo schieramento politico di destra, ma ridimensionare e isolare il Movimento 5 Stelle, non solo perché in relazione alla guerra russo-ucraina non si è appiattito sulle posizioni della Nato, ma anche perché, se ottenesse la rappresentanza elettorale prevista dai sondaggi, potrebbe costituire un terzo polo, oltre la destra e il centro-destra, e diventare determinante dopo le elezioni per formare la maggioranza parlamentare, bruciando il progetto di trasformare il sistema politico italiano in un bipartitismo tra due opzioni politiche molto più simili che alternative tra loro, in grado di garantire alle élites interne e internazionali la tutela dei loro interessi qualunque sia il raggruppamento politico al governo.
Se è vero che a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca, l’obbiettivo di ridimensionare la forza politica del Movimento 5 Stelle è stato il filo conduttore di tutta la XVIII legislatura, iniziata con la vittoria inaspettata e travolgente di questo partito, che il 4 marzo 2018 ottenne il 33 percento dei consensi. Dopo una crisi istituzionale durata ben tre mesi, verificata l’impossibilità di trovare un accordo con il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle lo raggiunse con la Lega per Salvini e indicò come primo ministro l’avvocato e docente universitario Giuseppe Conte. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo incaricò di formare il governo ma, quando il Presidente del Consiglio incaricato gli presentò la lista dei ministri, non acconsentì di procedere alla nomina di Paolo Savona al Ministero dell’Economia. Di fronte al rifiuto di Giuseppe Conte di accettare questa imposizione, diede a Carlo Cottarelli, un economista non etichettato politicamente che aveva ricoperto incarichi direttivi presso il Fondo Monetario Internazionale, l’incarico di costituire un governo tecnico di larghe intese. Che questo tentativo non avesse alcuna possibilità di successo e fosse motivato solo dalla volontà d’impedire la costituzione d’un governo guidato dal Movimento 5 Stelle, fu testimoniato dal fatto che nessun partito si dichiarò disponibile a sostenerlo. E Cottarelli attraversò l’agone politico come una meteora. La situazione di stallo fu sbloccata con lo spostamento di Paolo Savona al Ministero per gli Affari Europei e finalmente il governo entrò in carica il 1° giugno. L’alleanza tra i due partiti, che non avevano nulla in comune, fu in realtà un patto di non belligeranza, che consentiva a entrambi i contraenti di perseguire i propri obbiettivi senza interferenze reciproche. Ognuno fece il proprio gioco. Il Movimento 5 Stelle concentrò il suo impegno sul miglioramento delle condizioni di vita delle classi sociali più povere (reddito di cittadinanza e decreto dignità). La Lega lo concentrò sul contrasto all’immigrazione clandestina. A un anno dalla formazione del governo, alle elezioni europee che si svolsero il 16 maggio 2019 il Movimento 5 Stelle dimezzò i suoi voti, scendendo dal 33 al 17 per cento. La Lega li raddoppiò, passando dal 17 al 34 per cento, e decise che era il momento opportuno per rompere
l’alleanza di governo perché riteneva che fosse impossibile trovare una maggioranza alternativa e che, pertanto, il Presidente della Repubblica sarebbe stato costretto a sciogliere le camere e indire elezioni anticipate in cui era convinta di replicare il successo delle elezioni europee. Dai risultati elettorali il leader della Lega Matteo Salvini presumeva di poter ottenere i pieni poteri.
Questa arroganza spaventò il Partito Democratico che accettò di allearsi con i 5 Stelle e il 5 settembre entrò in carica il governo Conte II, che dall’8 marzo del 2020 si sarebbe trovato a gestire lo sconvolgimento creato dalla pandemia di Covid-19 e la crisi economica innescata dal blocco delle attività produttive e dalla chiusura in casa della popolazione per contenere la diffusione dei contagi. Le misure sanitarie adottate furono duramente criticate soprattutto dai partiti di destra per gli effetti negativi sull’economia che comportavano, ma furono efficaci per il contenimento della pandemia. Per il rilancio dell’economia il Presidente del Consiglio riuscì a ottenere, tra lo scetticismo generale, lo stanziamento di 209 miliardi di euro dall’Unione Europea. Quel successo consolidò la sua credibilità tra la popolazione e preoccupò i suoi avversari politici perché la gestione di quella somma l’avrebbe accresciuta ulteriormente.
Il 12 gennaio 2021 il Consiglio dei Ministri approvò il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in cui si definiva la destinazione d’uso dei fondi assegnati all’Italia dall’Unione Europea. Le due ministre del partito Italia Viva, nato dalla scissione del Partito Democratico promossa da Matteo Renzi il 17 settembre 2019, si astennero. Il giorno dopo Italia Viva ritirò la sua delegazione dal governo aprendo la crisi. Il Presidente del Consiglio chiese la fiducia alle Camere e la ottenne con la maggioranza semplice, ma non con la maggioranza assoluta, per cui ritenne di dimettersi dall’incarico, pur non essendo tenuto a farlo. Verificata l’impossibilità di costituire un terzo governo Conte, il 3 febbraio il Presidente della Repubblica ripropose il suo progetto di un governo tecnico di larghe intese, assegnando l’incarico esplorativo all’ex Governatore della Banca d’Italia ed ex Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, che lo accettò. Poiché tutti i partiti, a eccezione di Fratelli d’Italia e di Sinistra Italiana, si dichiararono favorevoli e la formazione del suo governo poteva essere impedita solo dal Movimento 5 Stelle, il Presidente incaricato telefonò al suo fondatore Beppe Grillo e gli accarezzò l’ego per due ore, al termine delle quali Grillo annunciò ai quattro venti che Draghi non solo aveva riconosciuto il contributo fondamentale dato dal Movimento 5 Stelle al rinnovamento della politica in Italia, ma aveva anche accettato la sua proposta di cambiare il nome del Ministero dell’Ambiente in Ministero della Transizione ecologica, di includere tra le sue competenze la gestione dell’energia e di affidarne la gestione allo scienziato a suo dire criptogrillino Roberto Cingolani: «un incompetente messo lì contro le rinnovabili», ha dichiarato G. B. Zorzoli in un’intervista pubblicata da il manifesto il 31 agosto 2022. Grillo, riconoscente, usò tutto il suo carisma per indurre il Movimento 5 Stelle ad accettare con una votazione on line di far parte della maggioranza. Dal giorno 13 febbraio il Governo Draghi, sostenuto da tutti i partiti politici, eccetto Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana, e da un servo encomio di tutti i mass media che oltrepassava i limiti del ridicolo, iniziò a smantellare le leggi promosse dai pentastellati nei due governi Conte: dai sostegni alle classi sociali più deboli alla riforma della giustizia.
Il lavoro di indebolimento dall’esterno del Movimento 5 Stelle fu sostenuto da un lavoro di indebolimento dall’interno, guidato dal suo ex capo politico Luigi Di Maio che, in contrasto con le decisioni del suo partito, nel mese di gennaio 2022 manovrò sottobanco per favorire il desiderio di Mario Draghi di diventare Presidente della Repubblica. L’operazione non riuscì, ma Di Maio non si arrese e il 21 giugno formalizzò una scissione del Movimento 5 Stelle, che fu condivisa da 63 tra deputati e senatori. Pochi giorni dopo il Presidente del Consiglio presentò un decreto contenente misure per alleggerire gli effetti dei prezzi sempre più alti dell’energia elettrica e dei prodotti petroliferi, il cosiddetto Decreto Aiuti, in cui aveva inserito il finanziamento dell’inceneritore richiesto dal sindaco di Roma, sebbene non fosse inerente all’oggetto. Sapendo che la proposta era
inaccettabile dai pentastellati, sull’approvazione del decreto aveva posto il voto di fiducia, in modo da poter scaricare su di loro la responsabilità di una eventuale crisi di governo (e, probabilmente, per uscire elegantemente da un ruolo sempre più difficile da gestire). Giuseppe Conte che, nonostante le resistenze di Beppe Grillo, il 6 agosto 2021 era stato eletto presidente del Movimento 5 Stelle con un consenso quasi plebiscitario, subordinò il voto del suo partito alla disponibilità del governo di discutere un documento programmatico di nove punti. Il Presidente del Consiglio rifiutò il confronto e il 10 luglio il Movimento 5 Stelle alla Camera votò a favore della fiducia, ma contro il decreto. Il 14 luglio, al Senato, dove non è previsto il voto disgiunto, non partecipò al voto e, sebbene la maggioranza dei senatori avesse confermato la fiducia al governo, il Presidente del Consiglio salì al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Il Presidente della Repubblica lo rinviò alle Camere e il 20 luglio il Presidente del Consiglio si presentò al Senato dove ottenne la fiducia con 95 sì e 38 no: i senatori pentastellati si dichiararono “presenti non votanti” per non far mancare il numero legale, quelli di Lega e Forza Italia non parteciparono al voto. Il Presidente del Consiglio inviò al Presidente della Camera un messaggio in cui annunciava le sue dimissioni e le confermò al Presidente della Repubblica, che il giorno seguente sciolse in Parlamento e indicò la data del 25 settembre per lo svolgimento delle elezioni anticipate.
Tutti i tentativi di rendere politicamente irrilevante il Movimento 5 Stelle non sono riusciti nell’intento. Non ci sono riusciti innanzitutto i suoi errori: la scelta dell’uno vale uno che non ha favorito una selezione dei quadri in base alla competenza, la proibizione di costituire strutture territoriali che ha impedito la conoscenza reciproca degli attivisti, la modalità on line di scegliere i candidati alle elezioni che ha favorito chi ha saputo crearsi più adepti nel suo ambito territoriale. Non c’è riuscita l’alleanza con la Lega. Non ci sono riusciti i pesanti giudizi negativi espressi più volte da Grillo nei confronti di Conte, né la sua scelta di sostenere il governo Draghi e di condizionare pesantemente il voto on line che l’ha confermata, né il suo sostegno a Cingolani come ministro della Transizione ecologica. Non c’è riuscito lo stillicidio di deputati e senatori voltagabbana che nel corso degli anni hanno lasciato il Movimento ma non il seggio parlamentare, né la raffica delle espulsioni. Non c’è riuscito il bullismo mediatico dei mass media che hanno utilizzato ogni pretesto per criticare pesantemente ogni decisione dei rappresentanti del Movimento con cariche istituzionali, anche attribuendo loro responsabilità che non potevano oggettivamente avere. Non c’è riuscita nemmeno la scissione di 63 deputati pochi giorni prima che il Presidente del Consiglio ponesse il voto di fiducia sul decreto Aiuti. Gli attacchi sistematici dall’esterno, a volte smaccatamente pretestuosi, e le lacerazioni interne, innescate per lo più da chi intendeva mantenere oltre il limite dei due mandati i privilegi delle cariche elettive, hanno ridotto a un terzo la rappresentanza parlamentare che avevano conquistato nelle elezioni del 2018 e hanno eroso, secondo i sondaggi, in misura analoga i loro consensi elettorali. Tuttavia gli sfoltimenti sono stati selettivi: se ne sono andati gli elettori che li avevano votati non perché ne condividessero i programmi, ma per punire gli altri partiti; se ne sono andati gli eletti che erano stati attratti dalla facilità con cui i ridicoli meccanismi on line di selezione dei candidati consentivano di accedere alle ben retribuite cariche istituzionali. Questa pulizia non solo li ha rafforzati qualitativamente perché ha aumentato la loro coesione interna, ma ha favorito l’adesione di elettori e militanti politici che, pur condividendo molte delle loro idee – dalla giustizia, all’ecologia, all’onestà nella gestione della cosa pubblica, al limite dei due mandati elettorali – erano stati respinti dalla loro connotazione di partito padronale, dai loro errori e dal loro caos organizzativo e ideologico.
Probabilmente sarà il raggruppamento di destra a vincere le prossime elezioni politiche. Se avrà la maggioranza assoluta il Presidente della Repubblica dovrà dare l’incarico di formare il governo a un/a suo/a rappresentante. Se non avrà una maggioranza assoluta si riproporrà l’ipotesi di un governo di larghe intese, a cui probabilmente il Partito Democratico aderirebbe. In ogni caso il prossimo governo si troverà ad affrontare i gravissimi problemi sociali posti dalla carenza e
dall’aumento del prezzo del gas – chiusura di attività produttive e commerciali, impossibilità per molte famiglie di pagare le bollette, disoccupazione, povertà – e i problemi posti dal riscaldamento globale e dagli eventi meteorologici estremi. Né gli uni, né gli altri possono essere risolti dalle scelte di politica economica e industriale finalizzate a una ripresa dell’economia sui modelli antecedenti la pandemia, come propongono la destra e il centro-destra. Diventerà pertanto strategico un buon risultato elettorale dei due partiti al di fuori di questi due schieramenti, in particolare del Movimento 5 Stelle, perché non sembra che Unione Popolare possa raggiungere percentuali determinanti per influenzare le decisioni politiche, anche se è prevedibile che accrescerà i suoi consensi sostenendo le rivendicazioni delle classi sociali penalizzate fino al limite della sopravvivenza.
Il Movimento 5 Stelle, per merito soprattutto dei suoi avversari che hanno fatto di tutto per emarginarlo, trarrà vantaggio dall’isolamento in cui l’hanno costretto pensando d’indebolirlo, innanzitutto perché a livello emotivo il singolo bullizzato suscita più simpatia della ghenga che lo bullizza, l’emarginato suscita più simpatia del gruppo che lo emargina: basti pensare al fatto che è l’unico partito con una percentuale significativa di potenziali elettori a non essere stato invitato a dire la sua al meeting di Comunione e Liberazione. A livello politico la sua autonomia dalla continuità con la cosiddetta agenda Draghi, rivendicata invece dal segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, sia in politica interna, sia nell’allineamento alla politica bellicista della Nato sulla guerra in Ucraina, gli offrirà la possibilità di recuperare una parte di coloro che negli anni scorsi sono andati, e di coloro che andrebbero a ingrossare il numero dei non votanti perché non si riconoscono più nei partiti di sinistra esistenti. Il vero voto utile delle prossime elezioni non sarà quello finalizzato a sostenere il raggruppamento di centro-destra per arginare quello di destra, perché la posta in gioco non è la contrapposizione tra fascismo e antifascismo, come vogliono farci credere, ma il successo o il fallimento dell’ennesimo tentativo di ridurre la dialettica democratica all’alternanza di due concezioni leggermente differenti, ma non alternative, della politica interna e della politica estera. Il vero voto utile sarà quello che può trasformare in una posizione di forza l’isolamento in cui è stato spinto il Movimento 5 Stelle, perché può metterlo in grado di impedire la realizzazione di questo progetto finalizzato alla conservazione di un precario equilibrio mondiale basato sulla deterrenza e non sulla collaborazione, alla riproposizione dei tentativi fallimentari di conciliare la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci col rientro nei limiti della sostenibilità ambientale, al mantenimento dell’iniquità tra le classi sociali e tra i popoli.
Il sostegno al Movimento 5 Stelle in questa scadenza elettorale non significa condividerne totalmente le posizioni politiche, ma proporsi di favorire un confronto tra questo soggetto politico-istituzionale e il variegato mondo dei movimenti pacifisti, ecologisti, per la difesa dei beni pubblici, contro il consumo di suolo, per la tutela del paesaggio, contro gli inceneritori e i rigassificatori, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e le comunità energetiche, per l’abolizione degli allevamenti intensivi e il benessere animale, per il sostegno all’agricoltura biologica e un inserimento lavorativo dei migranti nel rispetto delle normative contrattuali vigenti. Alla tendenza a restringere gli spazi della democrazia va contrapposta una spinta ad allargarli anche al di fuori degli ambiti istituzionali. Forse è un’utopia, ma la specie umana è arrivata a un punto di svolta che richiede un cambiamento profondo. Ne va della sua sopravvivenza.
Direttivo SEquS