Maurizio Pallante risponde sul Fatto Quotidiano a Massimo Fini sulla decrescita felice
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VIRUS, LA DECRESCITA INFELICE E NECESSARIA
di Massimo Fini, da Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2020
Di Coronavirus, di epidemie, di pandemie, di peste, di Manzoni, di Boccaccio si è detto tutto e forse anche troppo (devastanti nel creare il panico sono state le televisioni e alcune misure molto impressive del governo come la cancellazione delle partite dell’Inter, a Milano il calcio è più importante del Duomo, inoltre il campionato fu sospeso, per due anni, solo durante la Seconda guerra mondiale). TRATTERÒ QUINDI un argomento che non c’entra col Coronavirus, ma in un certo senso gli si affianca perché, come ha scritto Travaglio, non tutto il male vien per nuocere. Un paio di settimane fa mille scienziati, fisici, matematici, sociologi, climatologi, hanno firmato su Le Monde un appello sulla crisi ecologica, anzi sulla catastrofe ecologica, che ritengono più vicina di quanto non si creda: “In queste condizioni la realtà supera le peggiori previsioni e un riscaldamento globale superiore ai cinque gradi non può più essere escluso, il che significherebbe la fine della Francia come territorio abitabile”. Son cose, più o meno, note. Più interessanti sono le ragioni in cui gli scienziati individuano le cause del riscaldamento della terra e più in generale dell’inquinamento globale: “Un consumismo sfrenato e un liberalismo economico ingiusto e predatorio”. E aggiungono di non aver nessuna fiducia in un progresso tecnologico che risolva la questione (infatti la Tecnologia come risolve un problema ne apre altri dieci più complessi, come mi disse una volta il filosofo della Scienza Paolo Rossi). La sola speranza, sostengono questi scienziati, è nell’avvento di un “uomo nuovo” che “non si lasci più affascinare da balocchi inutili come l’auto autonoma o la nuova rete cellulare”. È la “decrescita felice” che gli scienziati francesi, sciovinisti come sempre, attribuiscono a un’intuizione di Serge Latouche all’inizio degli anni Duemila. Per la verità son le cose che io vado sostenendo nei miei libri e nei miei scritti da trentacinque anni dai tempi de La Ragione aveva Torto? che è del 1985. In Italia sulla linea della decrescita felice, in realtà più in armonia con le tesi degli scienziati francesi, perché io non credo affatto che la decrescita sarà “felice”, ma avverrà quasi di colpo con un conseguente bagno di sangue e lotte feroci fra città e campagna, c’è anche Maurizio Pallante. Negli Stati Uniti ci sono due correnti di pensiero, il bioregionalismo e il neo comunitarismo, che parlano, detto in estrema sintesi, di una decrescita “limitata, graduale e ragionata che passa per il recupero della terra e il ridimensionamento inevitabile dell’apparato industriale e finanziario” (per dare a ciascuno il suo, il primo a porre la questione, sia pur in termini non così chiari, fu agli inizi degli anni Sessanta André Gorz, cofondatore con Jean Daniel de Le Nouvel Observateur). I firmatari di Le Monde affermano che non ci si può aspettare nulla dalla politica. E si capisce il perché, l’“uomo nuovo” da loro preconizzato significherebbe un capovolgimento radicale dell’attuale modello di sviluppo. Infatti noi oggi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre, per sostenere l’apparato produttivo. Se l’appello degli scienziati francesi fosse accolto e tutti smettessimo di consumare il “superfluo”, l’intero sistema collasserebbe su sé stesso (anche se poi ci sarebbe da intendersi su che cosa si ritiene realmente “necessario”, per me magari sono i libri, per il mio vicino è un’altra cosa, è il quesito che mi pose tanti anni fa il grande storico italiano Carlo Maria Cipolla).
IO TEMO che non se ne farà nulla. Ci siamo messi la corda al collo da soli avendo avuto, a partire dall’Illuminismo, troppa fiducia in uno Sviluppo materiale e tecnologico che ha poco a che fare col Progresso, come scrisse, inascoltato come siamo stati tutti inascoltati, anche Joseph Ratzinger quando era cardinale: “Lo sviluppo non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano”.
“DECRESCITA FELICE” È LOTTA AGLI SPRECHI
di Maurizio Pallante, da Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2020
Le riflessioni di Massimo Fini sulla decrescita, pubblicate sul Fatto Quotidiano del 5 marzo, m’inducono a intervenire sul tema per precisare alcuni concetti. Non lo faccio volentieri perché l’ho fatto più volte e ho sempre constatato che se c’è chi non viene ascoltato, tra cui si annovera lo stesso Fini insieme a Ratzinger, a me succede di non essere nemmeno letto. Come si deduce dal fatto che alla decrescita felice vengono rivolte sempre le stesse critiche, da chi critica l’idea che se ne è fatta e non ciò che significa.
Una precisazione preliminare sulla definizione: tutti l’attribuiscono a Latouche, che non l’ha mai utilizzata e l’ha scritto più volte, mentre invece è il titolo di un mio libro pubblicato nel 2005, dove l’ho formulata, per cui ritengo di esserne l’interprete autorizzato. Innanzitutto non bisogna confondere il concetto di decrescita, che è una riduzione volontaria, selettiva e governata della produzione di merci che non hanno alcuna utilità e creano danni, col concetto di recessione, che consiste in una riduzione generalizzata della produzione di tutte le merci, utili e inutili, non scelta, ma subita a causa di una congiuntura economica, o di una dinamica biologica come l’attuale diffusione del Covid-19. La conseguenza sociale più grave della recessione è l’aumento della disoccupazione. La conseguenza più interessante della decrescita, oltre la riduzione dell’impatto ambientale, è un aumento dell’occupazione utile, l’unica che può dare risultati anche numericamente significativi. Per argomentare questa affermazione occorre precisare, come ho già fatto molte volte, che la decrescita felice non si realizza con la riduzione dei consumi superflui, che, come è stato suggerito a Fini da Carlo Maria Cipolla, attengono alle preferenze soggettive degli individui, su cui sui nessuno ha diritto d’intervenire. La riduzione dei consumi che la decrescita felice auspica è la diminuzione dei consumi oggettivamente inutili, cioè degli sprechi. Per esempio, l’energia che si spreca negli edifici costruiti male, quelli classificati in classe G, ammonta ai due terzi degli edifici in classe C, ai 9 decimi degli edifici in classe A. Non conosco nessuno che, per quanto ricco, dovendo comprare una casa, desideri che sia piena di spifferi perché si può permettere di pagare bollette energetiche alte. Poiché in Italia gli edifici consumano nella stagione invernale tanta energia quanta ne consuma il trasporto automobilistico in un anno, se il governo, invece di proporsi di accrescere il debito pubblico per sostenere una crescita che, se ci sarà, aggraverà la crisi ecologica, proponesse la ristrutturazione di tutti gli edifici esistenti per ridurre i loro consumi energetici, quanta occupazione si creerebbe? Ma, cosa ancor più interessante, questa occupazione ridurrebbe le emissioni di CO2 e gli investimenti si pagherebbero in un certo numero di anni con la riduzione dei costi di gestione energetica, senza bisogno di accrescere il debito pubblico. Le stesse considerazioni valgono per il cibo che si butta (un terzo di quello che si produce), per i materiali riutilizzabili contenuti negli oggetti dismessi che vengono interrati o bruciati mentre si ciancia di economia circolare, per le perdite delle reti idriche (i 2 terzi dell’acqua pompata dalle falde), per l’obsolescenza programmata, per l’abuso di medicine ecc. Lo sviluppo di innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre il consumo di risorse e le emissioni inquinanti mediante una decrescita selettiva e governata degli sprechi, non comporterebbe un miglioramento della qualità delle nostre vite? Tutti coloro che, non avendolo capito, ridicolizzano la decrescita felice, non sono un po’ corresponsabili per la persistenza dei problemi ambientali, occupazionali e sociali causati dalla finalizzazione dell’economia alla crescita e dell’infelicità che ne deriva?
Photo by Nik MacMillan on Unsplash
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Modestamente aggiungo che se ciascuno pagasse il danno provocato al sistema (principalmente alla Natura), lo spreco si ridurrebbe notevolmente per lo stesso principio indicato da Pallante: che ciascuno ambisce a risparmiare, se può. Con la differenza che pagare interamente il danno consentirebbe di avere azioni, anche inizialmente nocive, a costo zero per l’ambiente: tu inquini il fiume, te lo lascio fare, ma poi tu paghi per il suo ripristino e per il danno, materiale e morale, subito da tutti coloro che usano il fiume.
Dal punto di vista occupazionale invece, si potrebbero pagare tutti coloro che ripristinano lo stato naturale di un ambiente: ad esempio, si potrebbero pagare gli zingari (notoriamente capaci ed esperti in questo) a raccogliere e differenziare i rifiuti abbandonati nelle città, pagandoli per il conferimento in discarica.
Caro Maurizio, concordo pienamente con la definizione che dai di Decrescita Felice. Che a mio giudizio non è la stessa che intende Latouche!
E penso che le tue (nuove) proposte hanno le gambe lunghe.
Segnalo ancora una volta che il nome Decrescita Felice, a indicare il significato da te illustrato a Il Fatto Quotidiano, è un errore! È quello che gli insegnanti di lingua chiamano “falso amico”. Trattasi, di un termine di una lingua straniera molto simile a quello della tua lingua ma con un significato diverso. Necessita pensare a un nuovo nome, pur lasciando intatto il pensiero sotteso di idee brillanti e soluzioni indiscutibilmente razionali.