Rilancio della domanda in tempo di crisi: le grandi opere non servono
di Guido Pesante
Nel nostro paese è reiterata la progettazione di grandi opere mal concepite ingegneristicamente, disfunzionali, impattanti sul territorio. Non a caso, nel 2016 si è resa indifferibile la revisione progettuale (“project review”, così denominata dai documenti ufficiali) del complesso delle opere infrastrutturali di cui alla Legge obiettivo, la legge 443 /2001 (un coacervo di interventi senza pianificazione strategica, senza valutazione costi/benefici, senza condivisione con i territori). La revisione progettuale ha dovuto escludere dal suo raggio di azione il 58% delle opere previste perché già in corso o finanziate con obbligazioni giuridicamente vincolanti (OGV), anche se palesemente assurde, dispendiose, inutili o addirittura dannose. Per la restante parte – pure essendo stata scelto, in un’ottica al ribasso, di non operare con analisi costi/benefici strutturate, che avrebbero potuto mettere in discussione la realizzazione stessa dell’opera, e dunque pure agendo solo nell’ottica dello snellimento e della riduzione del danno – la revisione progettuale ha già portato a contenimenti di spesa dell’ordine del 70% per strade e autostrade e del 30 % per linee ferroviarie.
Un tanto conviene ricordare in premessa, a proposito della politica di grandi opere in Italia e della loro qualità.
Ma, si dirà (e si dice diffusamente da parte politica e imprenditoriale), le grandi opere hanno un impatto macroeconomico fondamentale sul lato della domanda aggregata. Con ciò confermando il sospetto che la grande opera non abbia riferimento al suo utilizzo, alla modernizzazione del sistema paese, al miglioramento della vita della popolazione, ma al giro d’affari, lecito o illecito, che consente di allestire.
In tempi di crisi il discorso viene rilanciato a pieni polmoni in ottica anticongiunturale. Al rispuntare del progetto del ponte sullo stretto fa così eco, in questi giorni, il progetto di un tunnel sottomarino tra Messina e Reggio Calabria: il tutto utilizzando le risorse europee del Recovery Fund, che, prevedibilmente, andranno ad alimentare velleità di ogni tipo.
È allora necessario far presente che, in particolare in Italia, sussiste un’enorme forbice tra i tempi di realizzazione di una “grande opera”, e quelli di realizzazione di un’opera di importo ridotto: il tempo di completamento di un’opera il cui valore economico si aggiri attorno ai 100 milioni di euro, è, mediamente, di 15 anni e sette mesi, dalla fase di progettazione (comprendente i vari livelli di elaborazione tecnica e quelli di svolgimento delle procedure amministrative antecedenti alla gara), a quella di cantieramento, al completamento e collaudo; le opere di minimo importo, cioè di importo sui 100 mila euro, per gli stessi passaggi prendono invece un lasso di tempo, comunque eccessivo, di 2 anni e 6 mesi. *
Segue, che se si vuole alimentare la domanda effettiva per contrastare efficacemente il ciclo, molto meglio finanziare piccole (e piccolissime) opere, come manutenzioni di ospedali e scuole, efficientamenti energetici, rinaturalizzazione degli alvei fluviali, conversione dell’agricoltura a pratiche meno idrovore…, ricordandosi, al contempo, di potenziare convenientemente la capacità tecniche di progettazione, realizzazione e gestione dei manufatti da parte degli enti locali, oggi drammaticamente sottodimensionate.
Non occorre aggiungere, in questa sede, perché è tema di altri e più qualificati interventi, la funzione che le piccole opere hanno in una prospettiva, decrescitista, di contenimento degli sprechi e di valorizzazione del territorio.
* vedi Andrea Boitani, Investimenti pubblici e bassa crescita – Centro studi Arel 2019
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