Ripresa e resilienza. Ma l’epidemia non ci ha insegnato proprio niente?
Premessa
Per ricevere i finanziamenti stanziati dal New Generation EU, i Paesi europei devono presentare alla Commissione europea un programma contenente i progetti che intendono finanziare con i contributi che riceveranno, in parte sotto forma di sussidi, in parte sotto forma di prestiti a tasso agevolato. Il Consiglio dei Ministri ha presentato il 15 settembre 2020 una prima bozza del programma, che ha intitolato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e una seconda bozza, più dettagliata, il 12 gennaio 2021. Su questa bozza è stata aperta una consultazione che ha coinvolto non solo le forze politiche, ma anche le principali organizzazioni della società civile e le associazioni ambientaliste, dal momento che almeno il 37 per cento dei finanziamenti dovranno essere finalizzati, per volontà della Commissione europea, alla transizione ecologica. Al termine delle consultazioni il Governo delibererà il testo definitivo del PNRR, che dovrà essere approvato dal Parlamento.
Prima di entrare nel merito delle proposte, che hanno subito delle modifiche tra la prima e la seconda stesura, e altre ne subiranno in conseguenza della consultazione, è importante capire il contesto culturale da cui scaturiscono i progetti, che è riassunto perfettamente nei due concetti, di ripresa e resilienza, dichiarati nel titolo.
La ripresa
La ripresa è la ripartenza di un processo temporaneamente interrotto. Indica una continuità tra il prima e il dopo di una sosta, decisa volontariamente come la tappa intermedia di un percorso, o imposta da circostanze esterne. È ricominciare a fare ciò che si faceva prima che un ostacolo impedisse di continuare a farlo. Perseguire la ripresa economica significa proporsi di rimettere in moto il sistema economico e produttivo provvisoriamente inceppato. Fare in modo che riprenda a funzionare.
L’economia delle società industriali è finalizzata alla crescita della produzione di merci, per cui ha bisogno di quantità crescenti di risorse, emette quantità crescenti di sostanze di scarto, solide, liquide e gassose, ricopre di sostanze inorganiche superfici sempre più vaste della superficie terrestre, modifica profondamente gli ecosistemi e le relazioni tra le specie viventi, distrugge gli habitat delle specie animali selvatiche costringendole ad avvicinarsi alle aree antropizzate.
Secondo l’interpretazione scientifica più accreditata è stato un coronavirus, che coabitava da secoli, o forse da millenni, in un animale selvatico scacciato dal suo habitat, a fare il salto di specie e a scatenare la pandemia che ha provocato la crisi economica più grave della storia del modo di produzione industriale.
Se le cose stanno così, non potrà essere la ripresa di questa economia a consentirci di superare la crisi di cui è la causa. Non si può pensare che i problemi del presente post-pandemia si possano risolvere tentando di ritornare al passato pre-pandemia. Sembrerebbe che ne sia convinto anche il Presidente del Consiglio allora in carica, quando afferma in un passaggio della prefazione al piano: «Non possiamo permetterci di ritornare allo status quo precedente a questa crisi».
Ci si aspetterebbe che proseguisse dicendo che occorre cambiare profondamente il sistema economico produttivo, che il rilancio dell’economia dovrà essere indirizzato a riparare i danni ambientali fatti negli anni passati, ad accrescere l’efficienza energetica, a recuperare le materie prime secondarie contenute negli oggetti dimessi, a sviluppare innovazioni tecnologiche finalizzate a ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi. Invece subito dopo aggiunge: «L’Italia da oltre 20 anni fatica a tenere il passo delle altre economie avanzate. Il nostro Paese da tempo sconta tassi di crescita del prodotto e della produttività significativamente inferiori a quelli delle altre maggiori economie avanzate e insufficienti per garantire un miglioramento significativo del benessere dei suoi cittadini. Per uscire da questa crisi e per portare l’Italia sulla frontiera dello sviluppo europeo e mondiale occorrono (sic) un progetto chiaro, condiviso e coraggioso per il futuro del Paese, che permetta al nostro Paese di ripartire rimuovendo gli ostacoli che l’hanno frenata (sic) durante l’ultimo ventennio».1
Gli ostacoli che hanno frenato il sistema economico del nostro Paese e, un po’ meno, degli altri Paesi industrializzati, sono costituiti dal fatto che l’offerta di merci ha superato la capacità della domanda di assorbirla – vedi la crisi di sovrapproduzione del 2008 – ma, soprattutto, dal fatto che la crescita del consumo di risorse necessarie a far crescere la produzione ha superato la capacità della biosfera di sostenerla e di metabolizzare la crescita delle emissioni di sostanze di scarto.
Non si evita «di ritornare allo status quo precedente a questa crisi» proponendosi di far crescere la produzione di merci più di quanto non crescesse allora, ma spostando la finalizzazione dell’economia dalla crescita della produzione di merci allo sviluppo di tecnologie che consentano di rientrare gradualmente all’interno della sostenibilità ambientale, perché non c’è potenza tecnologica che possa ampliare i limiti fisici del pianeta. Se non si farà questo cambiamento la crisi ecologica si aggraverà, trascinando con sé un aggravamento della crisi economica. Solo una discontinuità rispetto al modello economico che ha causato la crisi consentirà di superarla.
La resilienza
Strettamente connesso all’obbiettivo della ripresa è l’obbiettivo della resilienza. La resilienza è un concetto formulato dalla fisica, che indica la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La resilienza di un materiale è un dato immodificabile e non ha senso proporsi di aumentarla. Se si vuole che un materiale non si rompa occorre evitare che subisca l’urto di una forza superiore alla sua resilienza.
Il concetto è stato in seguito adottato dall’ecologia per indicare la capacità degli ecosistemi di resistere all’urto di cambiamenti che possono rompere gli equilibri che regolano i rapporti di interdipendenza degli organismi viventi tra loro e con i fattori abiotici dell’ambiente in cui vivono.
Gli esseri umani possono accrescerne parzialmente la resilienza, per esempio rafforzando gli argini dei fiumi per evitare che esondino nelle piene, potenziando la copertura boschiva dei pendii collinari per prevenire le frane, aumentando l’autosufficienza energetica e alimentare, arricchendo il contenuto humico dei suoli agricoli, creando delle barriere arboree per contenere l’impeto dei venti, evitando di costruire in luoghi pericolosi.
Non sono però in grado di aumentare la resilienza degli ecosistemi in maniera sufficiente a evitare che i fenomeni meteorologici estremi causati al surriscaldamento del pianeta li distruggano e uccidano le persone che li abitano.
Se si vuole evitare che ciò avvenga, più che tentare di rafforzare la resilienza degli ecosistemi occorre ridurre la violenza degli urti che possono subire. Cioè l’aggravamento della crisi ecologica, in particolare della crisi climatica.
l documento in cui il Governo ha raccolto i suoi progetti per accedere ai finanziamenti europei segue la strada opposta. Lo manifesta già dal titolo, in cui abbina la volontà di sostenere la ripresa di un modello economico e produttivo che ha già accresciuto, e continuerà ad accrescere, la forza degli urti che inevitabilmente colpiranno gli ecosistemi, con la volontà di aumentare la loro resilienza, potenziando le misure con cui, illusoriamente, si pensa di accrescere la loro capacità di sostenerli senza collassare.
[1] Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, PNRR, 12 gennaio 2021, pag. 6.
Image: Banner vector created by katemangostar – www.freepik.com