Tu, se voti, contro quale partito voti?
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di Maurizio Pallante
Tu, se voti, contro quale partito voti?
Potrebbe sembrare una domanda paradossale, eppure fotografa l’evoluzione della democrazia italiana dall’esito del referendum del 1993, con cui è stato sancito il passaggio dal sistema elettorale proporzionale al sistema maggioritario, alle elezioni regionali del 26 gennaio 2020 in Emilia e Romagna.
Era inevitabile che, passando da una legge elettorale finalizzata a rappresentare percentualmente a livello istituzionale tutta la gamma degli orientamenti politici e culturali presenti nella società, a una legge che rendeva strategicamente conveniente la formazione di due schieramenti contrapposti, uno di centro-destra e l’altro di centro-sinistra, chi non si sentiva rappresentato da nessuno dei due poteva soltanto astenersi dalla scelta (non voto, scheda nulla o scheda bianca), o contribuire a impedire l’affermazione dello schieramento più lontano dalla propria concezione politica, dai propri valori, o, più prosaicamente, dai propri interessi, votando lo schieramento antagonista anche se non vi si riconosceva.
Contestualmente i partiti, essendo indotti a confluire in uno dei due schieramenti antagonisti, dovevano sfumare le proprie connotazioni per raggiungere dei compromessi. Oppure, pur di partecipare alle competizioni elettorali con la possibilità di avere una rappresentanza parlamentare in uno schieramento potenzialmente in grado di conquistare la maggioranza, saltabeccavano di volta in volta dall’uno all’altro per contrattare le condizioni più favorevoli.
A queste dinamiche non si sono adeguate solo alcune componenti della sinistra storica che, rifiutandosi di considerare definitiva la sconfitta subita nel 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino, hanno continuato a credere che si potessero riproporre gli stessi schemi interpretativi delle dinamiche sociali e politiche in base ai quali avevano elaborato le proprie strategie in passato, mentre invece le società post-industriali andavano assumendo connotazioni molto diverse, che quegli schemi non riuscivano a interpretare.
Di conseguenza, anche se il divario tra le classi sociali più ricche e le più povere aumentava, se diventavano sempre più gravi le sofferenze umane e sociali causate da un sistema economico finalizzato alla crescita dei profitti, se i vincenti diventavano sempre più arroganti e i partiti diventavano sempre di più una casta principalmente interessata alla tutela dei propri privilegi, i partiti di sinistra non erano in grado di fornire alternative credibili ai processi in corso, per cui non riuscivano a intercettare il voto di coloro che non si riconoscevano in nessuno dei due schieramenti.
Queste dinamiche furono bruscamente scompaginate nel 2013 dalla partecipazione alle elezioni politiche di un partito, il Movimento 5 stelle, che rifiutò di collocarsi in uno dei due campi antagonisti, rivendicando la sua totale estraneità rispetto ai partiti esistenti.
A differenza dei partiti di sinistra, che avevano fatto la stessa scelta di presentarsi autonomamente ricevendo dall’elettorato consensi irrilevanti, il Movimento 5 stelle risultò il primo partito col 25,56 per cento dei voti, raggiungendo da solo un risultato pressoché equivalente a quello della coalizione di centro-sinistra, che ottenne il 29,55 per cento, e a quello della coalizione di centro-destra, che ottenne il 29,18 per cento.
Questo risultato, oltre a mettere in crisi il sistema maggioritario, indusse i suoi militanti a credere che i voti ricevuti rappresentassero un’adesione ai contenuti del suo programma politico, mentre in gran parte erano voti contro il sistema dei partiti, a cui il Movimento 5 stelle offriva la possibilità di trasformare il rifiuto dell’esistente in sostegno a una possibilità positiva di cambiamento. Non si trattava di voti convintamente «per» loro, ma «contro» gli altri. Non erano voti consolidati, ma voti volatili da fidelizzare, di elettori che volevano metterli alla prova sperando di essere fidelizzati. Voti che, come erano arrivati improvvisamente e inaspettatamente, improvvisamente potevano andarsene.
La maggiore forza elettorale conferita al Movimento 5 stelle da questi voti che si aggiungevano a quelli dati con convinzione da chi si riconosceva nelle sue posizioni, ha sortito due effetti nel corso della legislatura 2013- 2018. Gli ha consentito di svolgere con più efficacia la lotta contro gli altri partiti e di ampliare il suo consenso elettorale. E ha rafforzato nei suoi militanti la convinzione che quei voti fossero consolidati e non in prestito, sub judice, in attesa della prova dei fatti quando sarebbero passati dall’opposizione al governo, come è successo in seguito alle elezioni del 2018, dove i consensi del Movimento 5 stelle hanno superato il 32 per cento, rendendolo indispensabile per ogni possibile maggioranza.
A riprova della volatilità dei voti «contro» e della necessità di trasformarli in voti «per», nel giro di un anno quel patrimonio di consensi si è quasi dimezzato. Alle elezioni europee del maggio 2019 è sceso al 17,06 per cento. Si potrà obiettare che non erano elezioni equivalenti a quelle nazionali, ma il calo si è registrato anche nei confronti delle precedenti elezioni europee del 2014, dove il Movimento 5 stelle aveva ottenuto il 21,16 per cento. La situazione è precipitata un anno dopo, alle elezioni regionali del gennaio 2020 in Emilia e Romagna, dove il suo consenso è crollato al 4,7 per cento (alle politiche, due anni prima si era attestato al 27 per cento, alle precedenti regionali del 2014 al 13,26 per cento).
I voti che aveva ottenuto «contro» gli altri partiti se ne sono andati più rapidamente di come erano arrivati. Sono sempre rimasti «contro», ma si sono indirizzati contro Matteo Salvini e la Lega, confluendo sul candidato presidente dello schieramento opposto insieme ai voti suscitati dalla mobilitazione delle sardine e a quelli raccolti dalla lista Emilia Romagna Coraggiosa.
Molti dei voti che sono stati determinanti per la vittoria di Stefano Bonaccini non sono arrivati da elettori che condividevano il suo programma, ma da elettori che si proponevano d’impedire alla Lega di vincere le elezioni.
Diversi fattori lo testimoniano, a partire dalla scelta dello stesso Bonaccini di non gestire la campagna elettorale come esponente del suo partito, ma concentrandosi esclusivamente sulle cose fatte dalla sua giunta nei 5 anni precedenti e sul programma di cose da fare nei 5 anni successivi. Nelle manifestazioni di piazza organizzate dal movimento delle sardine non hanno mai sventolato bandiere di partito, ma i partecipanti hanno evidenziato la loro connotazione antifascista, cioè anti-salviniana, cantando sistematicamente Bella ciao. Utilizzando la possibilità del voto disgiunto, molti elettori del Movimento 5 stelle hanno votato per la propria lista e per il candidato presidente della coalizione antagonista alla Lega. Il numero più alto delle preferenze è stato raccolto dalla capolista di Emilia Romagna coraggiosa, che si era distinta per aver smascherato l’assenza della Lega nelle 23 riunioni in cui nel Parlamento europeo erano stati discussi gli impegni da prendere per affrontare i problemi posti dalle migrazioni.
Che Bonaccini abbia vinto grazie ai voti che ha ricevuto in quanto antagonista di Salvini e non per il il suo programma, è dimostrato anche dal fatto che molte delle sue scelte politiche sono identiche a quelle dei presidenti regionali leghisti di Veneto e Lombardia.
In primo luogo la scelta a favore dell’autonomia differenziata che, oltre a essere molto discutibile dal punto di vista giuridico, è il contrario dell’equità sociale: il principio fondamentale della cultura di sinistra. Anche sui problemi ecologici le sue scelte hanno una netta connotazione di destra, perché privilegiano gli interessi economici sulla tutela ambientale, come è stato dimostrato dall’opposizione alla pur blanda plastic tax per non creare problemi alle industrie emiliane leader nel settore degli imballaggi di plastica. O l’apertura alla privatizzazione della sanità. O la condivisione con la Lombardia e il Veneto nel primato sul consumo di suolo (484 metri quadrati per abitante conto i 461 del Veneto). O l’affidamento della gestione dei servizi pubblici a società per azioni.
Sono i limiti del voto «contro». Non solo per chi lo dà, non potendo far altro. Ma anche per chi lo riceve. Se diventa determinante per far vincere un’elezione, quella vittoria è fragile.
Ma, oltre la scadenza elettorale, il voto «contro» esprime anche una richiesta politica di più ampio respiro: l’aspirazione a diventare un voto «per» un progetto politico che non c’è tra le proposte politiche attuali e che occorre costruire.
Photo by Hermes Rivera on Unsplash
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