Urbanistica e decrescita: l’urgenza di un mutamento di paradigma
di Guido Pesante
Benché esistano complessi urbani risparmiati dal fluire del tempo, come accade ad alcuni insediamenti medioevali monumentalizzati, la città può considerarsi una realtà naturalmente metamorfica. Al tempo d’oggi le spinte trasformative provengono da tre orizzonti: quello demografico, quello ambientale, quello tecnologico. Pur operanti anche nel passato, hanno assunto una particolare incidenza nel presente per l’intensificarsi e il velocizzarsi delle dinamiche.
Le città, dunque, sono chiamate a ridisegnarsi – anche dal punto di vista metodologico, integrando le procedure di zonizzazione con altre, più sofisticate – e, prima ancora, a riconoscersi nelle potenzialità e nei limiti che rappresentano.
Tra i tanti aspetti che dovrebbero essere affrontati, merita richiamare, per l’ennesima volta, l’attenzione sul fatto che, in particolare in Italia, si è costruito troppo.
I dati che annualmente l’Ispra (Istituto Superiore per la Ricerca e Protezione Ambientale) mette a disposizione sul consumo del suolo sono semplicemente sconvolgenti: 14 ettari di suolo verde consumati al giorno, 2 mq al secondo, per una popolazione in declino demografico: è come se, nell’ultimo anno, avessimo costruito 456 mq per ogni abitante in meno. Ed il consumo di suolo cresce persino nelle aree protette, nelle aree vincolate per la tutela paesaggistica, in quelle a pericolosità idraulica media e da frana e nelle zone a pericolosità sismica. Negli ultimi sei anni, secondo le prime stime, l’Italia ha perso superfici che erano in grado di produrre tre milioni di quintali di prodotti agricoli e ventimila quintali di prodotti legnosi, nonché di assicurare lo stoccaggio di due milioni di tonnellate di carbonio e l’infiltrazione di oltre 250 milioni di metri cubi di acqua di pioggia che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde aggravando la pericolosità idraulica dei nostri territori. Il recente consumo di suolo produce un danno economico potenziale compreso tra i 2 e i 3 miliardi di euro all’anno dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici del suolo*.
E sono dati sconvolgenti a fronte, tra l’altro, del fatto che il tessuto anche soltanto di una media città – diciamo di Trieste – contiene al suo interno una quantità di metrature e cubature inutilizzate largamente sovradimensionate rispetto alla capacità di reimpiego da parte della collettività.
Ho fatto, non a caso, riferimento a Trieste. La città è in fase di costante regresso demografico ed attualmente si attesta attorno ai 200mila abitanti (anche se il vigente Piano Regolatore ipotizza, incongruamente, una capacità insediativa di 242mila). A seguito di un provvedimento di sdemanializzazione, una parte delle aree portuali, quelle del cosiddetto Porto Vecchio di costruzione asburgica, è stata riconsegnata alla città. Si tratta di uno splendido complesso caratterizzato dalla presenza, seppure non esclusiva, di magazzini di pregio storico (vincolati) e di una struttura viaria a maglia ortogonale che rimanda a quella della parte del centro storico con il quale è confinante.
Il punto è, che la superficie interessata ammonta a oltre 600mila metri quadri (il 15% dell’intera area urbana triestina). Se non bastasse, nelle aree esterne all’enorme complesso portuale sdemanializzato, e tutte comprese nel perimetro urbano, recentissime stime hanno appurato la presenza di altri 850mila metri quadrati di spazi inutilizzati (interi palazzi vuoti, caserme ormai disabitate, impianti sportivi sotto utilizzati ed obsoleti, comprensori fieristici deserti, strutture manifatturiere in abbandono…). Per tacere delle migliaia (11.000?) di alloggi sfitti, e senza contare i vani commerciali vuoti (centinaia).
Il gigantesco problema che si pone è, come si diceva, quello del riuso di tale patrimonio perché, di fatto, e per quanto la fantasia di amministratori, investitori privati, associazioni, si sbizzarrisca, non è dato vedere quali funzioni insediare (né, ma è altro problema – certo impellente, ma paradossalmente, allo stato, meno drammatico – quali risorse finanziarie attivare).
Si impone, a questo punto, la necessità di avviare, accanto alle ristrutturazioni, un’importante stagione di demolizioni senza ricostruzione, ma con deimpermebilizzazione e rinaturalizzazione: demolizioni di manufatti privi di valore architettonico, per realizzare o ampliare aree verdi, piazze, spazi di gioco e di socializzazione, corridoi ecologici, in una città che, come tante altre, negli ultimi settant’anni si è densificata ed espansa, senza realizzare nemmeno una piazza.
Ma il tema della demolizione senza ricostruzione e con ripristino ambientale, normalmente ignorato o comunque sottostimato dalla strumentazione urbanistica e dagli investimenti pubblici, deve diventare oggetto di ripianificazione dell’intero territorio, uscendo dalle città per investire, con priorità e per l’intanto, la capannonistica industriale che ha brutalizzato il territorio agricolo e naturalistico del paese, prima di venire – in parte che andrebbe urgentemente stimata – desertificata da processi di trasformazione produttiva, da crisi imprenditoriali, da delocalizzazione.
Si tratterebbe di dar vita ad un’ enorme cantiere di “piccole opere” distribuito sul territorio nazionale (parallelo al cantiere diffuso di messa in sicurezza idrogeologica dei versanti montani e delle aste fluviali), funzionale non solo alla riqualificazione del sistema paesaggistico e naturalistico del paese, ma anche al contrasto al cambiamento climatico: sempre l’Ispra segnala come la presenza di aree cementificate al posto di aree verdi determini la presenza di isole di calore che portano la temperatura urbana a superare mediamente di ben due gradi quella delle aree rurali.
E ciò andrebbe fatto nella consapevolezza che si tratterebbe di un cambio di paradigma tra due prospettive non complementari, ma nettamente alternative: quella delle grandi opere infrastrutturali e quella, appunto, dei, relativamente, piccoli cantieri diffusi: alternative sotto il triplice profilo delle risorse finanziarie disponibili, delle procedure burocratiche da utilizzare, delle competenze tecniche da attivare.
Andrebbe fatto nella consapevolezza di un tanto, e sotto il segno di un decrescitivismo “costruttivo” (mi si passi il termine): costruttivo di utilità sociali ed ambientali (ma anche economiche), demateralizzate, eppure estremamente concrete.
Photo by Luke Michael on Unsplash
[/et_pb_text][/et_pb_column][/et_pb_row][/et_pb_section]
Occorre disaggregare questi dati e, tenendo conto della crisi del settore edilizio, che dura da circa dieci anni, bisogna incrociarli con quelli relativi al volume annuo di nuove costruzioni, forniti dall’ISTAT, Altrimenti resta pura propaganda, da dare in pasto ai gonzi.