Wolf in sheep’s clothing (lupo travestito da pecora)
Di Maurizio Pallante

In una trasmissione radiofonica andata in onda il 22 novembre 2021, poco dopo la chiusura della Cop 26 a Glasgow, il ministro italiano della Transizione ecologica Roberto Cingolani, un tecnico con una caratura politica nel senso che ha assunto questo termine negli ultimi decenni, ha sentito il bisogno di polemizzare con Greta Thunberg, la diciottenne svedese che con la sua de-terminazione due anni prima aveva dato l’avvio al movimento ambientalista dei Fridays For Future. Ciò che lo aveva infastidito era stata l’accusa di fare soltanto dei bla bla, che la ragazza aveva rivolto ai rappresentanti dei governi di tutto il mondo nel corso di una manifestazione di migliaia di giovani e giovanissimi che protestavano per l’incapacità, o la mancanza di volontà, delle classi dirigenti di assumere le decisioni necessarie a tutelare il loro futuro dalle minacce del surriscaldamento climatico. Per tentare di recuperare con le parole la credibilità persa con i fatti, il ministro Cingolani era andato a parlare direttamente con la ragazza cercando convincerla che lei e i suoi coetanei non avevano capito l’impegno ecologico che guidava le sue scelte. Anche se aveva già concluso, sebbene non ancora ufficialmente, l’accordo sull’inserimento del nucleare e del metano nella tassonomia delle energie sostenibili, voleva essere considerato un attivista ambientalista. Forse era davvero convinto, anche se i dati scientifici e tragici incidenti dimostravano il contrario, che fossero due fonti di energia ecologiche. «Credo – ha detto nell’intervista – che se c’è qualcuno che non fa blablabla sono io. Greta l’ha detto a me, ma anche agli altri attivisti che ci sono rimasti molto male. Quando uno dice che tutto il mondo è fatto da imbecilli, poi deve farsi qualche domanda».
In realtà Greta non aveva detto che i delegati dei governi riuniti a Glasgow fossero degli imbecilli. Non aveva detto che ce so’, ma che ce fanno. Il che è molto peggio perché, pur non ignorando la gravità raggiunta dalla crisi climatica, hanno continuato, come i loro predecessori, a proporre i tentativi fallimentari di attenuarla cercando di disaccoppiare la crescita delle emissioni climalteranti dalla crescita economica. Erano davvero convinti che si potessero aumentare i consumi energetici per consentire all’economia di continuare a crescere, e ridurre al contempo le emissioni di CO2 sostituendo parzialmente il carbone e il petrolio col metano e costruendo nuove centrali nucleari, che non forniranno nemmeno un chilowattora prima di quindici anni dall’autorizzazione a costruirle? Evidentemente trent’anni di fallimenti non sono bastati a capire che la scelta più efficace e più conveniente economicamente per attenuare l’effetto serra non è la ricerca di fonti che consentano di accrescere l’offerta di energia riducendo al contempo le emissioni di gas climalteranti, ma lo sviluppo delle tecnologie che consentono di ridurre la domanda a parità di benessere e di servizi:
– riducendo gli sprechi e le inefficienze in modo da soddisfare il fabbisogno residuo con le fonti rinnovabili;
– producendo beni durevoli che durino davvero, invece di progettarli con l’obsolescenza programmata per accelerare i processi di sostituzione;
– rendendo più conveniente ripararli invece di sostituirli se si guastano;
– riutilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi per produrre altri oggetti invece di bruciarli negli inceneritori o interrarli nelle discariche;
– limitando le delocalizzazioni per ridurre gli spostamenti delle merci su e giù per il mondo;
– favorendo la commercializzazione di prossimità dei prodotti agricoli e ridimensionando gli allevamenti industriali.
Un disaccoppiamento temporaneo tra la crescita delle emissioni di gas climalteranti e la cresci-ta del prodotto interno lordo in realtà si è verificato, ma solo per un breve periodo, tra il 2015 e il 2016 in Cina e negli Stati Uniti, in conseguenza dell’incremento della quota del metano e della ri-duzione della quota del carbone nel mix energetico di quei Paesi, ma la crescita dell’economia ha continuato a far crescere i consumi energetici e dopo appena due anni, secondo i dati riportati nel-la ricerca Il mito della crescita verde pubblicata nel 2019 dall’European Environmental Bureau, le emissioni di gas serra hanno ricominciato a crescere, dell’1,6% nel 2017 e del 2,7% nel 2018, perché la riduzione percentuale dei consumi energetici per unità di prodotto è stata vanificata dalla crescita della produzione.
La Cop 26 di Glasgow è iniziata sotto pessimi auspici. Il giorno precedente la sua apertura, il 31 ottobre, si era concluso a Roma l’incontro del G20 con un comunicato in cui si premetteva che era necessario mantenere l’impegno, preso nel 2015 alla Cop 21 di Parigi, di contenere l’incremento della temperatura terrestre in 1,5 °C rispetto ai valori dell’epoca pre-industriale, altrimenti non si sarebbe raggiunta la neutralità carbonica entro il 2050 e alcuni fenomeni attivati dall’effetto serra avrebbero raggiunto il punto di non ritorno: scioglimento della calotta polare artica, arresto della corrente del golfo, scioglimento del permafrost con emissione in atmosfera di ingenti quantità di metano e di virus rimasti intrappolati nel ghiaccio per milioni di anni, sommersione di am-pie fasce costiere e delle città che vi sono state costruite. Ciò premesso, non si capisce in base a quale logica la scadenza improrogabile del 2050 per raggiungere la neutralità carbonica era stata sostituita da un generico «entro o attorno la metà del secolo». Trovata questa mediazione che, violando le indicazioni dei climatologi, accentuava irresponsabilmente i pericoli che incombono sul futuro dell’umanità, i capi di Stato e di governo erano stati accompagnati, come studenti in gita scolastica, alla Fontana di Trevi, dove si erano messi in fila con le spalle rivolte all’acqua e aveva-no gettato una monetina dentro la vasca. Poi erano saliti sugli aerei di Stato e avevano raggiunto Glasgow.
Con questa solida premessa, nella Cop 26 il solito tentativo di conciliare la riduzione delle emissioni di gas climalteranti con la crescita del prodotto interno lordo è stato integrato in senso peggiorativo dalle anticipazioni che Unione Europea stava valutando la possibilità di sancire ope legis l’ingresso dell’energia nucleare e del metano con sequestro e stoccaggio dell’anidride carbonica, tra le fonti energetiche sostenibili. La decisione ufficiale sarebbe stata presa tre mesi dopo, ma tutto lasciava intendere che la scelta politica era stata già fatta. Per conferirle una parvenza scientifica era stata elaborata una tassonomia, indicando sei obbiettivi ambientali e climatici in base ai quali stabilire quali tecnologie potessero essere considerate ecologiche e accedere ai fi-nanziamenti europei. Gli obbiettivi indicati erano stati: mitigazione del cambiamento climatico; adattamento al cambiamento climatico; uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche a riduzione e riciclo dei rifiuti; prevenzione e controllo dell’inquinamento; protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi. Per essere dichiarata eco-compatibile sulla base di questa tassonomia, una tecnologia avrebbe dovuto soddisfare i seguenti criteri: contribuire positivamente ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali; non produrre impatti negativi su nessun altro obiettivo; essere svolta nel rispetto di garanzie sociali minime.
Sulla base di questi indicatori, il 31 dicembre la Commissione europea ha deliberato, a maggioranza, di inserire il nucleare e il metano tra le fonti energetiche che riducono le emissioni di CO2, ma prima di rendere pubblica la sua decisione l’ha inviata agli esperti che hanno partecipato alla elaborazione della tassonomia. Gli esperti hanno bocciato l’inserimento del nucleare perché, pur avendo emissioni pari quasi a zero, non rispetta il principio di «non nuocere significativamente» a nessuno degli altri obbiettivi ambientali indicati. Non hanno però escluso tassativamente il gas, sostenendo che poteva rientrare tra le fonti finanziabili dall’Unione europea, ma solo a condizione di un radicale abbattimento delle sue emissioni, ottenibile col loro sequestro e stoccaggio. La Commissione europea non ha tenuto conto di queste osservazioni e il 2 febbraio ha ribadito, ancora a maggioranza, la volontà di includere il nucleare e il metano tra le fonti energetiche sostenibili nell’atto delegato che presenterà alla discussione del Parlamento e del Consiglio europeo.
Senza frapporre indugi, il 10 febbraio il presidente francese Emanuel Macron ha annunciato la costruzione nei prossimi anni di sei nuovi reattori nucleari nell’ambito di un piano ambizioso da lui definito la «rinascita dell’industria nucleare francese». I lavori inizieranno nel 2028 con l’obbiettivo di rendere operativi gli impianti nel 2035. Troppo tardi per contribuire alla riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030. Comunque la previsione era decisamente ottimistica se si pensa che la costruzione della centrale di Flamanville, iniziata nel 2007, si prevede che termine-rà nel 2023 (con un aumento dei costi da 3,3 a 12,7 miliardi). Il presidente francese ha inoltre comunicato la decisione di iniziare gli studi di fattibilità per la costruzione di altri otto reattori e di estendere dagli attuali 40 a 50 anni il limite di tempo oltre il quale le centrali nucleari in funzione devono essere chiuse per questioni di sicurezza.
Sull’efficacia ecologica di questa scelta Mycle Schneider, uno dei massimi esperti del settore nucleare, curatore del World Nuclear Industry Status Report (Wnisr), rapporto annuale di riferi-mento mondiale sullo stato dell’industria dell’energia atomica ha detto: «Se l’Europa vuole realmente raggiungere gli obiettivi climatici che si è prefissa, il nucleare è da escludere. Ogni euro speso nel nucleare peggiorerebbe la crisi climatica. Non è solo una questione di rischi e di scorie, come si pensava una volta. Ma di tempi e di costi: impossibile avere nuove centrali prima di 15 anni. E con un prezzo per l’energia nucleare che sarebbe comunque esorbitante rispetto a quello delle rinnovabili». Non è un caso che a spingere per il nucleare verde sia stata la Francia, dove circa la metà dei 58 reattori nucleari attivi sono diventati obsoleti, e quindi vanno chiusi o rinnovati, in entrambi i casi con costi di decine di miliardi di euro in pochi anni.
Subito a ruota di Macron, in Italia, sul sito del Ministero della Transizione ecologica, il 13 febbraio è stato pubblicato il Pitesai, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, firmato alla fine di dicembre dal ministro Cingolani, dove sono indicati i luoghi in cui sarà possibile riavviare, dopo la moratoria decisa nel 2019, la prospezione e l’estrazione di idrocarburi su terra e offshore. Sul gas giacente nel sottosuolo italiano il governo e l’associazione degli industriali confidano per contrastare la forte impennata dei prezzi degli idrocarburi a livello interna-zionale e ridurre l’assoluta dipendenza del Paese dal gas proveniente dalla Russia e dall’Algeria. Ma il gas italiano consentirebbe davvero di risolvere questi problemi? I giacimenti contengono tra i 40 e i 50 miliardi di metri cubi di gas. Probabilmente ce ne sono altri 30 miliardi. La somma delle due grandezze consentirebbe di sostenere i consumi italiani solo per un anno. Le riserve russe, le più grandi del pianeta, contengono 50 mila miliardi di metri cubi. Quelle dell’Algeria, nel maggio 2020 secondo il ministro dell’energia ammontavano a 2.368 miliardi. Aumentare l’estrazione del gas italiano non avrebbe alcun effetto sulla riduzione dei costi per i consumatori, famiglie e imprese, non solo per la sua modesta quantità, ma anche perché sarebbe comunque immesso sui canali di vendita internazionali a prezzi di mercato. Le attuali quotazioni assicurerebbero soltanto grandi profitti per chi sfrutta questi giacimenti, anche grazie al costo irrisorio delle concessioni.
È forse per non intaccare questi interessi che non viene nemmeno presa in considerazione la possibilità di ridurre il costo delle bollette energetiche e il prezzo del gas, riducendo le inefficienze e gli sprechi? Invece di porre un limite temporale ravvicinato ai sostegni stabiliti dalla legge 77/20 per la ristrutturazione energetica degli edifici, non converrebbe implementarli, vincolandoli a una restituzione mensile dei contributi economici ricevuti, commisurata sulla riduzione dei costi delle bollette, in modo da mettere in moto un processo che si autoalimenta in gran parte? Come non pensare che la riduzione dei consumi consentirebbe inoltre di rendere meno costoso soddisfare con fonti rinnovabili il fabbisogno residuo? Il ministro della transizione ecologica, nonché fisico, accademico ed ex dirigente d’azienda pubblica Roberto Cingolani non ha mai speso una parola a sostegno di quella legge indispensabile per ridurre le emissioni climalteranti del 55% entro il 2030. Ma ne ha spese per far inserire nella tassonomia delle energie verdi il metano, che le incrementa, e il nucleare da fissione che non le ridurrà prima di quindici anni, troppo tardi per gli obbiettivi dell’Unione europea. In attesa della fusione nucleare che se mai sarà pronta, lo sarà, per sua stessa ammissione, tra qualche decennio. C’è una foto che lo ritrae a Glasgow accucciato da-vanti a Greta Thunberg, a cui cerca vanamente di far credere che lui non fa dei blabla. Lei, che sembra ancora una bambina, lo guarda con un’aria assente. Non gli dice stupita: «Che bocca grande che hai».
[1] Cingolani di nuovo contro GretaThunberg, intervista rilasciata a Radio Capital, riportata dal Fatto Quotidiano il 23 novembre 2021.
[2]. Per approfondire: https://www.eticasgr.com/storie/approfondimenti/tassonomia-verde
[3]. FQ MillenniuM, mensile del Fatto Quotidiano, sabato 12 febbraio 2022.